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IL BUIO DENTRO

Molti anni erano passati.
Era stato un incidente, solo un maledetto, dannato incidente. Erano nati e avevano condiviso gli stessi giochi di strada, due ragazzini di quartiere. Un gioco finito male, un petardo esploso troppo vicino. Uno dei due ne uscì senza vista, i suoi occhi non vedevano più, il suo cielo era scomparso. L’altro, terrorizzato, impaurito fuggì, sparì. Lui rimase al buio e lentamente la sua vita si trasformò in un lungo, lento e inarrestabile stillicidio di veleno che finì col tempo per avvelenare tutti i suoi giorni. Le notti innanzi a lui erano votate completamente alla ricerca e alla vendetta nei confronti di quell’altro.
Per lui quel fuggiasco era un cane, solo un cane bastardo e la sua vita avrebbe ritrovato un senso solo con la sua morte. Ormai viveva solo per questo; impiegò mezzi, soldi da uomo potente che era diventato, sguinzagliò cani mastini ovunque alla sua ricerca. Gli anni nel frattempo scorrevano e l’unica persona che fin da bambina aveva vissuto quella storia, la tragedia del padre, era sua figlia. Era la sola che ancora cercava di persuaderlo a dimenticare, a lasciare il passato al passato. “Dimentica padre, dopotutto è solo un uomo; un uomo che certamente ha commesso un errore imperdonabile fuggendo, fuggendo in quel modo ma poteva capitare a lui, certamente aveva paura, era terrorizzato; padre, sei ancora un uomo ricco e potente, hai già buttato tanti anni della tua vita. Lui potrebbe essere addirittura morto, chissà, ti prego, dimentica padre. Questo non è vivere, è morire poco a poco, è impiegare il tempo che ti resta per morire. Mi dispiace padre ma io temo che il buio non sia fuori ma dentro di tè”.

Ma ogni tratto, ogni bagliore umano erano scomparsi in lui, erano stati irrimediabilmente lavati via dal suo cuore, come una spugna che passa sul vetro… E una sera, dopo quarant’anni giunse una telefonata: l’avevano trovato. Finalmente se lo sarebbe trovato di fronte, avrebbe percepito la sua presenza, il suo odore, come un predatore fiuta la preda. Fu condotto a casa innanzi a lui; era un piccolo uomo spaventato, erano due piccoli uomini spaventati al crepuscolo dei loro giorni. Uno in perenne ricerca, l’altro aveva esaurito la sua corsa. “Prima di uccidermi, ricordi almeno il mio nome? Lasciami dire, alla fine liberami e non farai che farmi una cortesia, sono esausto, stanco e vecchio per continuare a fuggire e nascondermi”. Uno vedeva, l’altro focalizzava l’immagine di quel momento. “Il tuo nome? Già, il tuo nome…” Non disse altro, una smorfia apparve sul suo viso vecchio di duemila anni. Non seguirono altre parole; a distanza ravvicinata i loro due inferni entrarono in contatto, l’uno nell’altro. Due colpi di pistola echeggiarono nella grande sala. Cadde di fronte ai suoi piedi. Era finita, era finita per sempre. Si sedette, era l’ombra dell’uomo che era stato ma il suo sogno era stato esaudito. Da una grande porta di legno laterale al salone, leggera come un angelo o come un fantasma entrò a capo basso sua figlia e si fermò tra i pochi presenti a due passi da lui. Lui ne percepì la presenza, il profumo. Disse solo: “E ORA, PADRE, E ORA, DIMMI PADRE, CI VEDI ORA?”
Enrico Savoldi

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