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ESSERE FORTI

“Lui è forte, ce la farà”.
Da qualche giorno mi ritornano in mente queste parole, dette da un familiare di un paziente.
Sono parole che sento spesso, parole frutto di speranza, di paura; parole che si aggrappano al primo salvagente disponibile, al bisogno di credere che le cose si risolveranno. Ma al di là del contesto ospedaliero da cui provengono, quelle parole mi colpiscono per un aspetto: l’idea che la forza di un individuo sia una, e che possa essere spendibile in ogni campo.


Non è così. Possiamo essere forti, ottimi lottatori in ambito professionale, ed essere deboli e sperduti in un letto d’ospedale. O al contrario, fragili nella vita quotidiana, e di fronte alla malattia trovare energie inaspettate. Non siamo un tutt’uno, dentro di noi si agitano personaggi molto diversi, che a volte interagiscono in modo fluido e funzionale, altre volte no.

Accade che un personaggio invada la scena, si agiti in monologhi che tengono dietro le quinte tutti gli altri, occupando così l’intero spazio interiore. Noi siamo fatti di parti che, talvolta, si dissociano. Non è solo un fenomeno patologico.


Il nazista, tenero padre con i suoi figli e sadico criminale nel lager, è certo un esempio di dissociazione patologica. Ma senza arrivare a tanto, tutti noi abbiamo vissuto esperienze in cui ci siamo sorpresi per delle reazioni inaspettate: “non so perché ho reagito così, non è da me”, “chissà che diavolo mi ha preso”… Non siamo monolitici, e nella vita ci può capitare di sentirci improvvisamente incapaci di affrontare una situazione, di sentirci fragili e vulnerabili anche se in altri momenti abbiamo scalato montagne.

Il punto è che non sappiamo se ce la faremo. Non sono pessimista, solo nel tempo ho continuamente sperimentato che per far fronte alla vita non abbiamo bisogno di certezze, ma di profondo affidamento, e che quel profondo affidamento non è mai imparato una volta per tutte.

Ho sempre amato molto le poesie di Emily Dickinson, e questa era una delle mie preferite.

“Non conosciamo mai la nostra altezza
finché non siamo chiamati ad alzarci.
E se siamo fedeli al nostro compito
arriva al cielo la nostra statura.(…)”


A volte, però, succede che non riusciamo affatto ad alzarci. Almeno per un po’, fintantoché le nostre risorse rimangono sequestrate dalla paura e dal dolore. E non sappiamo quanto tempo durerà il sequestro. Più o meno quotidianamente sento familiari incoraggiare i loro cari con le affermazioni di rito: “sei forte, ce la farai…”, “coraggio, su”… E spesso vedo nello sguardo dei pazienti la tristezza e la solitudine, lo sconforto che non trova ascolto e comprensione.
Le certezze non aiutano. Non ci aiutano i ruoli sperimentati, i sentieri noti.
Ci sono momenti della vita in cui guardiamo il vuoto, e abbiamo paura di non farcela.
Lì, in quei momenti, sappiamo che non tutte le storie sono a lieto fine e lo sentiamo nelle viscere. Lì, possiamo solo respirare e lasciare che il cervello, quietandosi, trovi una strada.


L’affidamento di cui parlo non è a un dio o a un destino, è l’affidarsi alle nostre più profonde risorse, a ciò che siamo, a ciò che le esperienze di vita hanno costruito in noi. Lì, aspettando che passi la nottata -giusto per citare Eduardo- scopriremo con quali forze e con quali debolezze potremo affrontare la situazione.
E potremo lavorare sulle debolezze. Perché anche se scopriamo che la nostra altezza è poca cosa, se scopriamo di non essere forti come pensavamo, di avere meno risorse del previsto, possiamo sempre imparare, e allenare muscoli deboli.

Il cervello è plastico, e apprende, crea nuove connessioni sinaptiche per aggirare ostacoli e vie interrotte. Finché c’è vita c’è vita. Quando abbandoniamo le certezze, può capitare di scoprire un nuovo approdo.
sguardiepercorsi

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