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Torino: l’incendio del Cinema Statuto

L’incendio del Cinema Statuto fu un tragico evento, avvenuto a Torino la sera del 13 febbraio 1983, che provocò la morte di 64 persone, principalmente per intossicazione da fumi.

Durante la proiezione del film “La capra”, delle fiamme si sarebbero propagate in sala partendo da una tenda: le vittime, sebbene avessero tentato la fuga, trovarono le uscite di sicurezza chiuse, non riuscendo così a scampare alle esalazioni di ossido di carbonio e acido cianidrico prodotte dalla combustione del poliuretano espanso delle poltrone, dal rivestimento plastico delle lampade e dai tendaggi alle pareti.


È considerata la più grande strage verificatasi a Torino dal secondo dopoguerra oltreché, a livello nazionale, punto di svolta circa la revisione delle normative in materia di sicurezza nei locali pubblici.
Nonostante una capienza di circa 1 200 posti, quel giorno erano presenti in sala solo un centinaio di persone, tra galleria e platea, trattandosi di una pellicola alla tredicesima settimana di programmazione a Torino: lo Statuto, infatti, era un cosiddetto cinema di “seconda visione”.

A contribuire alla bassa affluenza di pubblico erano state anche le avverse condizioni atmosferiche, data la nevicata che si stava abbattendo sulla città.


L’esercizio era stato ristrutturato pochi mesi prima, superando tutte le verifiche imposte dalle normative all’epoca in vigore in Italia: «…la commissione di controllo mi aveva dato ragione. […]


Erano venuti in sette, circa un mese prima della tragedia. Sette ispettori con competenze specifiche diverse. Avevano guardato dappertutto. Non c’era una sola lampadina fulminata, niente fuori posto. Si erano complimentati.

Nel rapporto non mi avevano fatto neanche una prescrizione», ricorderà venticinque anni dopo Raimondo Capella, proprietario dello Statuto al tempo dei fatti.

Dinamica degli eventi
Intorno alle 18:15, quando era iniziata da circa venti minuti la proiezione, si verificò un’improvvisa fiammata (i sopravvissuti riferiranno di aver udito un tonfo sordo, simile all’accensione di una stufa) causata da un cortocircuito, che incendiò una tenda adibita a separare il corridoio di accesso di destra dalla platea; cadendo, questa innescò il fuoco alle poltrone delle ultime file, tagliando in questo modo un’importante via di fuga che, comunque, alcuni riusciranno ugualmente a guadagnare.

Gli altri spettatori, terrorizzati, si rovesciarono in massa sulle sei uscite di sicurezza le quali, però, erano state tutte chiuse tranne una, per iniziativa del gestore, il quale in questo modo aveva voluto contrastare i frequenti ingressi di “portoghesi” (termine utilizzato per intendere “l’usufruire di un servizio senza pagarlo”.

Dall’esterno si udivano le urla e le richieste di aiuto, mentre alcuni spettatori della platea riuscirono a raggiungere l’atrio della biglietteria, dov’era presente il proprietario del cinema, il quale cercò inutilmente di calmare gli animi temendo un’ondata di panico collettivo.

A questo punto ebbe luogo una serie di errori che risulteranno determinanti: venuta a mancare l’illuminazione principale, non furono accese le luci di sicurezza tramite l’interruttore ausiliario ubicato dietro la cassa e la proiezione non fu interrotta, sempre secondo la ricostruzione, nel tentativo di contenere il panico.

Le conseguenze furono catastrofiche, perché in galleria il pericolo non fu percepito, se non quando fu invasa dal fumo. Chi riuscì a rendersi conto della situazione si diede alla fuga: alcuni si diressero verso l’accesso di sinistra che dava sull’atrio, ma nessuno riuscì a raggiungerlo (in questo punto si conteranno quasi quaranta morti); un’altra parte del pubblico, invece, si rovesciò in quello di destra, che però portava alle toilette, dalle quali non furono più in grado di uscire.

Altri spettatori, inoltre, vennero trovati morti ancora seduti in poltrona. Comune a tutte le vittime, il viso annerito dal fumo tossico scatenato dall’incendio, che aveva trasformato la galleria in una sorta di camera a gas soffocando i presenti in meno di un minuto.

Il 15 febbraio seguente, nel duomo cittadino furono celebrati pubblici funerali, alla presenza del presidente della Repubblica Italiana Sandro Pertini e del sindaco di Torino Diego Novelli. Dei 64 morti, 31 erano maschi e altrettante femmine, mentre i rimanenti due erano un bambino e una bambina; la vittima più giovane aveva 7 anni, la più anziana 55.

Indagini e procedimenti giudiziari
Le perizie successive alla tragedia dimostrarono che le cause dell’incendio, in realtà, andavano oltre le responsabilità o le negligenze individuali, comunque presenti: venne messo in dubbio l’intero sistema di leggi vigenti in materia di sicurezza, su scala nazionale, nell’Italia dei primi anni 80 del Novecento, redatte in maniera superficiale e altrettanto superficialmente mal applicate.

In quegli anni le porte con maniglione antipanico erano poco diffuse nei pubblici esercizi e, soprattutto, non ancora obbligatorie, al pari di altri sistemi di prevenzione quali i rilevatori antincendio; i locali erano generalmente dotati di impianti elettrici in gran parte datati e, come nel caso del Cinema Statuto, spesso la certificazione sui rivestimenti dei sedili si limitava all’accertamento delle proprietà ignifughe, soprassedendo quindi, in materia di fuoco, su altre possibili fonti di pericolo quali i fumi e le esalazioni tossiche: «Tessuto ignifugo autorizzato dallo Stato. Sull’etichetta c’era scritto: “Produce fumo”. […] Sprigionava acido cianidrico. In galleria sono morti nel giro di quaranta secondi».


Le vittime dell’incendio torinese perirono in un luogo che, paradossalmente, sulla carta rispettava tutte le norme di sicurezza richieste all’epoca dalla legge. Persino la circostanza della chiusura della maggior parte delle uscite d’emergenza non violava la normativa del 1983, la quale prescriveva, in modo generico, che queste fossero «apribili» senza tuttavia specificare come e da chi: «“Apribile”, in questa accezione, significa semplicemente che non devono essere “murate”. Anche una porta chiusa a chiave è “apribile”, basta avere la chiave…»


Dal successivo processo emerse la causa accidentale del rogo, pur se inizialmente si era ipotizzata anche la mano di un piromane, dato che pochi mesi prima, nel giugno del 1982, in appena una settimana tre cinema della città erano rimasti vittima di atti similari.

Undici persone furono imputate e, di queste, sei condannate per aver concorso alla concatenazione di eventi e per le manchevolezze culminate nell’omicidio colposo plurimo.

Il proprietario Raimondo Capella fu condannato a otto anni in primo grado, poi ridotti a due in appello con sentenza definitiva, oltreché a risarcire i 250 parenti delle vittime, costituitisi parte civile, con una somma di 3 miliardi di lire del 1985, che gli costò il sequestro e la successiva vendita di tutti i beni posseduti.


Tra gli altri imputati, il geometra Amos Donisotti, il quale aveva supervisionato i lavori di ristrutturazione dell’esercizio, fu condannato a sette anni, il tappezziere Antonio Ricci e l’operatore Antonio Iozza a quattro, mentre risultò assolto l’elettricista con la motivazione dell’insufficienza di prove; pene poi ridotte in appello, mentre in seguito la Cassazione concesse la prescrizione agli imputati rimasti.

Conseguenze
L’incendio dello Statuto seguì di poco meno di un anno quello del Palazzo del Vignola di Todi (25 aprile 1982), dalle dinamiche analoghe, che era costato la vita a 35 persone e aveva similmente scosso l’opinione pubblica nazionale. In questo clima, la tragedia torinese diede definitivamente il via a una revisione completa della normativa italiana in materia di sicurezza contro gli incendi nei locali pubblici e, in particolare, cinematografi.


La vicenda ebbe riflessi anche sul patrimonio artistico nazionale, dato che molti storici teatri italiani necessitavano a questo punto di pesanti modifiche strutturali: «…all’improvviso, si è scoperto che nel nostro Paese non esisteva quasi un cinema o un teatro in regola con la legge».

Ciò portò a un dibattito acceso, dato che in quegli anni l’orientamento era di non stravolgere le architetture del passato in funzione di una sopravvenuta «ventata “moralizzatrice”»; il rogo che nel 1996 distruggerà il Gran Teatro La Fenice di Venezia, con i suoi «…stucchi in carta pressata e dorata, sotto accusa perché non posseggono quelle caratteristiche di “reazione al fuoco” richieste dalla legge», di fatto porrà fine a tale argomentazione.

La catastrofe ebbe una vasta eco emotiva in città, accentuata dal fatto che dal giorno dell’incendio il Cinema Statuto non riaprì più, rimanendo per anni un triste monito con la sua facciata annerita dalle fiamme, fin quando fu abbattuto nel 1996 per far posto a un condominio.


Nel febbraio del 2013, a trent’anni dalla tragedia, pochi metri più avanti, in largo Cibrario, un’aiuola fu intitolata alla memoria delle vittime. L’anno prima tre cineasti della città, Fabrizio Dividi, Marta Evangelisti e Vincenzo Greco, avevano realizzato un documentario intitolato “Sale per la capra”, ricostruendo la tragedia, con corredo di interviste ai protagonisti dell’epoca e di documentazione giudiziaria, per la prima volta resa pubblica.
Fonte: Wikipedia

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