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Racconti sull’India (8^ Parte)

Gia’ dalle prime ore del mattino giunge incessante un rumore secco di pietre che si spezzano. La strada che porta al paese è un susseguirsi di piccole capanne dove donne spezzano sassi con una mazza, per crearne la ghiaia. Ogni giorno passiamo da loro per un saluto, un sorriso, per portare ai loro bambini delle caramelle, delle penne che qui non bastano mai. La sera ceniamo nel solito ristorantino che altro non è che due tavoli in un palmeto.
La prima serata ci avevan colti di sorpresa.
Conoscendo i ritmi indiani, ci siamo seduti alle
sette ed abbiamo cenato alle nove. La cosa stupefacente era che eravamo gli unici clienti del locale. Poi ne capimmo il perchè: non esistono frigoriferi e cibi già cotti. Uno semplicemente siede al tavolo e ordina dopodichè la folla che lavora nel locale, appartenente alla stessa famiglia, parte ognuna per una direzione diversa. Vanno a fare la spesa per noi. Il pesce lo vanno a comperare al momento così come la frutta, l’acqua. Tutto insomma.
Dalla sera dopo ci vedevano arrivare intorno alle sei. Ordinavamo e poi, seduti per terra
sotto le palme, aspettavamo la cena. Ogni sera ci propinavano una novità: il gelato (liquefatto), un dolce tipico. Si era instaurato un rapporto così intenso e amicale che non vedevo l’ora di andarvi. Ci spiegavano i misteri di quella terra, orgogliosi del loro Kerala, la regione meglio funzionante dell’India. Ci segnalarono alcuni posti da visitare, quali il paese dove fabbricavano corde ed il Monastero di Lourdes Pouram (dove vissi l’esperienza più unica e toccante di tutta la mia vita).  Il paese delle corde non è altro che un insieme di capanne dove famiglie intere, accovacciate per terra, creano corde dalla semplice lavorazione manuale della fibra di noce di cocco. Il monastero fu tutta un’altra cosa.
Era il 12 novembre. Prendemmo un taxi per farci accompagnare in questo posto, distante una cinquantina di chilometri. La filosofia dei taxisti indiani è: Io ti carico e ti sparo il prezzo facendoti vedere che so perfettamente dove devi andare. In realtà non lo so, comunque chiedo e vedrai che prima o poi si arriva. In questo modo coprimmo i 50 chilometri che divennero cento. Lì arrivati ci aspettava una chiesa disadorna, un cimitero e tre fedeli che pregavano con una devozione che non avevo mai visto prima. Ci fecero fare il giro della chiesa e poi, con un timore reverenziale di proporzioni gigantesche, ci presentarono il parroco, il quale parlava solo inglese. L’attimo dopo successe di tutto. Il parroco volle assolutamente accompagnarci con la propria auto in un altro monastero, gestito da suore italiane. Lì ci accolse suor Angela, una donna indiana che parlava bene l’italiano. Avevano da poco aperto una scuola per i figli poveri dell’India in un villaggio di pescatori di nome Poovar. La semplicità e la purezza di quella gente mi fecero sentire aspetti di umanità che non conoscevo. Suor Angela si scusò per l’assenza della madre superiora e ci invitò ad una festa organizzata dai loro bambini e che si sarebbe tenuta da lì a tre giorni. Vi andammo. L’Italia dal Kerala è irraggiungibile. Con la solita pazienza ci sedemmo per due ore in un ufficio del telefono in attesa di essere collegati con la famiglia. I miei non sapevano più nulla di me da 10 giorni. Ogni tentativo fallì.
Essendo stato, il giorno della festa, il momento più carico di vita che ho mai vissuto, lo riporterò fedelmente così come lo scrissi quella sera sulle pagine del mio diario di viaggio, per non deturparlo da sentimenti, sensazioni, immagini che potrei aver costruito negli anni successivi.
“E’ il gran giorno, è il giorno del bambino: “the children’s day”, come lo chiama suor Angela.
Ci alziamo alle 6 del mattino, ci laviamo e dopo la colazione partiamo con il solito taxi. Arriviamo alla scuola e suor Angela ci accoglie con una frase di benvenuto ed uno dei più bei sorrisi del mondo. Restiamo per un attimo lì, in piedi, mentre ella va a chiamare la Madre superiora. Sono imbarazzato, teso, mentre cerco di immaginare come possa essere questa donna ed ecco che appare facendoci il saluto indiano. Già da lì
capisco che è una donna dalla dolcezza infinita. E’ italiana. Ci parla dell’India in generale e della sua India in particolare. E’ una persona che crede fermamente in ciò che fa.
Indipendentemente dal fatto che sia una missione cattolica e non laica, quello che provo è quanto di più bello abbia mai potuto immaginare. E’ il momento della festa. Bambini e genitori sono tutti assiepati sotto una enorme tettoia fatta di foglie di palma. Appena entriamo siamo accolti dalla gente dell’India, da questi poveri figli di pescatori, da questa gente senza nulla, da questa immensità di occhi neri che ci guardano, si alzano e fanno partire un lungo, lunghissimo applauso al nostro indirizzo.  E tutto ciò mi crea un imbarazzo incredibile. Poi le parole di elogio da parte di emozionatissimi papà indiani per il gruppetto di italiani, noi, venuti a vedere lo spettacolo dei loro figli. I sacchi delle caramelle che abbiamo portato vengono messi lì davanti, divorate con gli occhi da bimbi increduli ma composti, che sanno di non poterle toccare finchè non verrà loro concesso il permesso. Lo spettacolo è quanto di più tenero si possa immaginare. Questi piccoli indiani recitano, danzano, ballano e poi il colpo di scena: un bimbo, avendo promesso di non raccontare a nessuno la storiella che doveva recitare, si rifiuta di raccontarla anche alla platea. Questa è l’integrità dei poveri dell’India. Il bimbo, imbarazzato e intimorito, si profuse in linguacce verso tutti i bimbi che, tra le prime file, se la ridevano di lui. Poi ancora parole di elogio della gente ed io muoio di vergogna perchè sento di rubare un momento senza aver fatto nulla per meritarlo.  Suor Paola, la supriora, ci ha invitato a pranzo e suor Annie ci ha preparato un pranzo tutto italiano, con gnocchi di patate al sugo, verdure e pollo. E’ tutto così semplice e pulito, pulito
come il loro sorriso. Poi ci accompagnano al villaggio, mostrandoci come vive la gente che oggi era lì con noi. E’ una cosa pietosa. Non ci sono case, non c’è igiene. Nulla ricorda la nostra civiltà. Ogni persona supplica queste suore di aiutarli a sopportare. Tubercolosi che vivono in capanne di paglia alte 150 cm e lunghe 2 metri, che quando piove sembrano colabrodi. Bimbi sporchi e pieni di parassiti che vengono utilizzati per il lavoro. Bimbi storpiati dai genitori fin dalla nascita per poter dar loro un futuro da mendicante. E’ un’altra India; è l’india degli orrori.
Poi ancora l’oasi quasi innaturale del convento ed ancora ci offrono thè, frittelle, dolci. Suor Paola ci accompagna, inoltre, a Lourdepouram e ci fa visitare un altro monastero. Poi i saluti, le promesse, la voglia di fare, di dare, di inviare qualche cosa dalla lontana Italia. Vi è una differenza enorme tra le suore missionarie e le suore delle nostre chiese. Dalle prime emana una luce celestiale. Le penso come donne e non come suore che hanno sacrificato la loro vita agli altri. Sono donne che, andando al di là della religione o del colore politico, sono uguali a tutte le persone di buona volontà.
Max – italbiker
– continua 9

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