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Piccolo residuo di quel senso di comunità…

Sono quel tipo di persona a cui dopo un po’ l’aria inizia a pesare, a cui ogni luogo dopo un po’ diventa stretto, a cui ogni tanto bisogna lasciar sfogo e spazio.
Un bisogno di evasione che è lo stesso spirito del viaggiatore, quel costante e continuo rincorrere una chimera che si intravede ora tra gli alberi, ora tra i pensieri. Rincorrendo e facendosi portare dal vento, mi muovo senza meta, senza motivo, senza pesi. Lascio tutto a terra e mi faccio portare. Sarà che amo le strade. Un po’ impervie, un po’ di ciottoli. Le strade della mia casa, le strade della mia vita che si aprono di fronte a me e la cui fine è sempre un po’ sfuocata. Sarà che non so resistere al richiamo del vento. Adoro come mi fa muovere a suo piacimento, adoro come è deciso nel portarmi da una parte e dell’altra, adoro come mi abbraccia e mi plasma ad ogni folata. E’ vento del nord, vento freddo e pungente, ma che porta via tutte le nuvole lasciando il cielo nudo, talmente celeste, limpido e trasparente da perdercisi. Forse mi piace proprio perché mi assomiglia. Continuo a camminare, senza pensare a come gira il mondo, ma lasciando ad ogni passo un po’ di inquietudine a terra. Qua so che posso essere sbilenca quanto voglio, posso guardare quello che voglio, posso notare ciò che a qualsiasi occhio passerebbe inosservato e ciò che un occhio attento, invece, riterrebbe inutile.
Faccio finta di essere un treno. E del mio amore per i treni ho già detto e ho già scritto. Non sbandano mai, loro, vanno dritti alla meta attraverso la terra. Precisi, puntuali, senza mai fermarsi a raccogliere viole o rincorrere farfalle. Sembrano così sicuri di loro stessi. Non potrei proprio mai essere un treno, mi manca completamente quella linearità e quell’equilibrio, mi mancano le rotaie, mi manca una destinazione. Ma si sa che si finisce ad amare proprio ciò che è più diverso da quello che lo specchio ci mostra quando ci rivolgiamo a lui. La solitudine del camminare, la casualità dell’incontrare. Il silenzio accompagnato da un po’ di buona musica nelle orecchie. “E ora viaggi vivi ridi e sei perduta, col tuo ordine discreto dentro il cuore. Ma dove dov’è il tuo amore? Ma dove è finito il tuo amore?”. Ci sono mancanze e vuoti che non si possono colmare e ci sarà sempre una panchina vuota a ricordarcelo.
Giardini segreti, case, campi, vecchi agricoltori chini a terra a curare il loro piccolo tesoro, trattori abbandonati, cani che abbaiano e ti rincorrono. Già, esistono ancora quei piccoli paesi in cui ogni casa ha un giardino e ogni giardino ha un cane, fiero e attento che non risparmia neanche un respiro pur di abbaiare a te, estraneo, che passi. Ti rincorre, ti chiama, ti avverte. Negli stessi piccoli paesi, poi, incontri qualcuno, qualcuno che ancora ti saluta anche se non ti conosce. Di certo non sa chi sei, troppo giovane, troppo assorbita dalla vita cittadina, troppo lontana e distante da quel luogo che ancora segue il corso delle stagioni, tuttavia non risparmia un cenno e un sorriso, quasi un piccolo inchino. Piccolo residuo di quel senso di comunità perduto che noi, piccoli atomi concentrati su se stessi, non riusciamo neanche a ricordare. Ogni stagione ha la sua bellezza, secondo me, e la bellezza dell’inverno è questa luce. Una luce che non ha bisogno di descrizioni o commenti. E’ quella. Quella che non esiste in altri momenti dell’anno, quella che mi permette di guardare in faccia il sole. Quella che illumina tutto con dolcezza. Quella che è così vicina da poterla toccare. In realtà, l’inverno ha anche una piccola gioia: trovare il primo bucaneve. In fondo, primavera non è così lontana.

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