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L’URAGANO

“Ma com’è che ti è venuto in mente di fare il venditore?” chiese Francois a Tony, mentre succhiava avidamente le chele di un astice. Fuori pioveva, tanto per cambiare, e il mare era parecchio agitato. La vetrata del ristorante dava proprio sulla spiaggia, e l’atmosfera all’interno era piacevole e silenziosa, se si escludeva il rumore delle mascelle di Francois che divorava crostacei al pari di una foca.
Tony lo guardò e notò che dall’angolo della sua bocca penzolavano un paio di zampette e una sbavatura di maionese. “Che strano clima”, pensò, “un maggio così freddo non lo avevo mai visto. Sembra novembre…”
Francois rimaneva un buon cliente, che nel tempo era diventato quasi un amico, anche se non pagava mai il pranzo, e Tony cercava di limitare i danni mangiando il piatto più economico del menù, evitando ogni possibile extra che se no usciva dal budget e il suo capo gli contestava la nota spese. Così i suoi pasti in compagnia di Francois si riducevano spesso ad un antipasto e una bottiglia d’acqua.
“Guarda”, rispose Tony, “è che da piccolo mi esercitavo a fare il dottore e a operare tutte le mie amichette delle elementari di appendice, giusto per capire come funzionava là sotto, poi un tizio ha mosso i primi passi sulla luna e mi è venuta la fregola di diventare astronauta”.
“Astronauta?” Lo interruppe Francois, “bella storia! Io invece volevo fare il pompiere. Potenza dell’undici settembre, sai gli eroi? Abbiamo tutti bisogno di un eroe in qualche fase della nostra vita. Poi un giorno finisci all’ufficio acquisti e ti rendi conto che non farai mai il pompiere. Tipo che i sogni a un certo punto li devi mollare e farti carico della realtà.”
“Si, infatti è durata poco”, riprese Tony, “fatti due rapidi calcoli ho capito che la strada per arrivare alla luna era parecchio lunga, così invece dell’astronave ho preso l’autobus e per un po’ di anni ho lavorato in un’officina.
Ero sempre unto come un carciofo sott’olio, e un po’ mi giravano. Stavo contemporaneamente frequentando un corso di chitarra classica e mi servivano le unghie a posto, per pizzicare le corde, e il lavoro che facevo non ne teneva conto.”
“Mi potrebbe portare un altro paio di gamberoni? Erano davvero ottimi!” chiese Francois alla cameriera che si era avvicinata al loro tavolo. “Gran bel culo”, bisbigliò a Tony osservandola andare via.
“Ma non ti sei ancora calmato? Stella non ti aveva messo le briglie?”

“Sì, guarda, non tocchiamo questo tasto”, rispose Francois, “mi stavi dicendo dei carciofi…”

“Infatti. Ti stavo dicendo che volevo suonare la chitarra… Fatto sta che una mattina arriva un tizio in officina. Un bell’uomo sulla cinquantina, con un trench inglese beige e il cappello. Beh, dovevi vedere il caporeparto le moine che gli faceva… Ci mancava solo il tappeto rosso… Il tizio era il rappresentante di una fabbrica di lime e di attrezzature per l’officina, cioè forniva al mio capo gli strumenti per massacrarmi le unghie. E il mio capo comprava da lui decine di strumenti di tortura per le mie mani da chitarrista e gli faceva pure un sacco di feste e gli offriva il caffè. E il signore delle lime aveva delle unghie curatissime, capisci?
Ecco, lì mi è venuto il flash.”
“Ah, insomma hai visto la luce!” rise di gusto Francois.
“Beh, in un certo senso sì, è pur sempre un lavoro. Faccio fare un mucchio di soldi ai miei capi, che in cambio mi danno uno stipendio sicuro”.
Francois si fece assorto e sussurrò “che poi in effetti è tutto sempre una fottuta compravendita, a volte sei fornitore, a volte sei cliente, e ti comporti diversamente. Sta cosa qua non l’ho mai capita.” – “Sí, vacci a capire”, rise Tony, “piuttosto: con Stella tutto a posto? Vi siete riavvicinati un po’?” – “Mah, va a colpi”, rispose Francois, “a volte ho l’impressione di essere su un ottovolante. Mi porta ad altezze vertiginose e a profondità irraggiungibili. Sono un po’ stanchino di questi su e giù.”
“Ma dai”, disse Tony, “io darei una mano per rianimare la mia storia con Laura. Brava donna, eh, nulla da obiettare, ma che due palle…
Il sabato si fanno le pulizie e si lava la macchina, la domenica giretto in collina per il gelato delle cinque, lunedì sera si fa la spesa, caspita, una noia… dico: che ti costa fare la spesa mercoledì sera e farti un aperitivo il sabato mattina?
Voglio dire, non è che sta scritto sulla pietra che il sabato si lava la macchina, no? Dio santo, si lamenta per la polvere sul cruscotto. Ci passa il dito e poi me lo mette sotto al naso!”
“Si, beh, capisco” disse Francois con un sorriso triste sulle labbra, “ma guarda che non hai più trent’anni, e certi stress non li sopporteresti. Non parlo solo di quello che si fa a letto, è tutto l’insieme… Siamo sempre in burrasca.
Un paio di settimane fa è stata una giornata straordinaria, era di luna giusta ed ha accettato di venire a fare un giro in moto, con due amici. E’ stata tranquilla e sorridente quasi tutto il giorno, giusto un paio di sberle sul casco quando superavo, ma cose che fanno tutte, niente di preoccupante. Una volta tornati ci siamo persino coccolati un po’, abbiamo cenato tranquilli e mentre io mi facevo la doccia mi ha detto qualcosa che non ho capito. Ho chiuso l’acqua e le ho chiesto se poteva ripetere. Beh, è entrata in bagno con un mozzicone in mano e gli occhi fuori dalla testa: “Queste sigarette chi le fuma?” – Oh, ma fuori di testa, incazzata nera… Insomma, non so chi caspita abbia fumato quella sigaretta, ma non sono io. Sono sicuro di non toccare tabacco da almeno quindici anni, ma giuro che sotto quello sguardo mi sono messo in discussione. Caspita, riesce a terrorizzarmi. Mi sono detto: sarò mica sonnambulo e mi fumo delle sigarette senza accorgermene?”
“Ma dai? Ma poi com’è finita?”
“Guarda, incazzata come una biscia. Non mi ha parlato per quattro giorni di seguito. Io sprofondato in depressione, che cavolo, guarda tu se mi devo fare condizionare così… fatto sta che la mattina del quinto giorno, verso le sei, albeggiava, esco sotto il portico e vedo un uomo che fuma: il giardiniere dei vicini. Per non buttare la cicca nel giardinetto comune, la spegneva nel mio vaso del limone. Ma capito? Quattro giorni senza parlarmi per una cosa che non ho fatto. Io non ci capisco più niente…”
“Ma come, il giardiniere che ti spegne la cicca nel vaso del limone? Ma che cavolo di giardiniere è?” – “Non è quella la questione, è che Stella mi ha tenuto il grugno per quattro giorni per una cosa che non ho fatto!”
-“Beh, sì, dev’essere una bella rottura”, annuì Tony, guardandosi le unghie.
Fuori il mare si ingrossava sempre di più. Tony osservò per qualche minuto le onde che spumavano rabbiose e si abbattevano oltre la muraglia di protezione. In giro non si vedeva un’anima. In rada gli alberi delle barche a vela ondeggiavano paurosamente, e Tony le immaginò come giganteschi metronomi che battevano tempi diversi, fuori sincrono, e ripensò alla sua chitarra seppellita in cantina.
“Che casino, là fuori, sembra novembre” disse tra sé. Tornò a pensare a quel novembre di cinque anni prima, che di solito novembre per lui era un mese strano, un mese moscio, il mese in cui si celebrano i morti e si portano alla luce i momenti passati, la primavera è un lontano ricordo, l’estate è finita e la neve lontana da arrivare, e si aspetta il Natale, quando la china delle lunghe serate buie sarà superata e si immaginerà un nuovo anno migliore. Ma quello di cinque anni prima non fu il solito novembre brumoso e fiacco, quello fu un novembre denso di novità, il mese che diede una piega diversa alla sua vita. Leggeva strane storie, ogni tanto, quando scendeva in fondo al pozzo, quando la gente gli veniva a noia, e come un riccio si appallottolava e tirava fuori gli aculei. Di solito in quei frangenti gli tornavano alla mente un decennio che aveva impresso a fuoco nella memoria, per imparare e poi lasciare andare. In quel novembre di cinque anni prima imparò a mettersi al centro, e non fu cosa da poco. Imparò a mollare le rocce e volare libero, in balìa delle correnti, senza rancori repressi né rimorsi o rimpianti. In quel mese capì che tutto ha un senso. Comunque vada, qualunque cosa fosse successa, quei momenti se li era vissuti, e comunque vada, qualunque cosa fosse successa, sarebbe stato bellissimo, perché aveva imparato a volersi bene.
“Dovrei ricominciare a suonare”, pensò, “adesso le unghie le posso far crescere quanto voglio.” Si riprese dallo strano torpore che lo aveva avvolto e disse: “Francois, là fuori si sta facendo parecchio brutto sai? Passiamo al caffè?”
“Che vento pazzesco” pensò, “stasera voglio fare una sorpresa a Laura, è una vita che non le regalo dei fiori. Siamo in maggio, le rose dovrebbero essere a buon mercato… c’è un vivaio, vicino a casa, e la commessa è così carina…”
“Sí dai” fece Francois, “mi sa che tra poco arriva un temporale assurdo… meglio sbrigarsi.
Hai un sacco di strada da fare e io sono in ritardo con le scartoffie in ufficio…”
Lo schermo appeso alla parete del locale riproduceva, senza audio, le immagini di un terribile tifone che stava devastando qualcosa.
C’era una strana elettricità nell’aria, il volto di Francois si fece terreo nella luce livida del pomeriggio appena iniziato. Urlò qualcosa indicando l’orizzonte, fuori, ma le sue parole finirono soffocate tra gli ululati del vento.
Tony vide la cameriera che arrivava un po’ di sbieco, col vassoio dei caffè, mentre un cartello stradale sradicato dal vento sfondava la vetrina, e pezzi di vetro volavano ovunque.
“Che strano maggio”, riuscì a pensare.
Massimo Zucca

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