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LANA DEL REY ULTRAVIOLENCE

Nel 2001 il leader dei Porcupine Tree Steven Wilson esprimeva nella loro “The Sound of Muzak” come la musica fosse un’arte in degrado, abbandonata da tutti. Da un lato aveva ragione, ovvero quello degli “artisti a pacchetto”, musicisti mediocri confezionati dalle case discografiche per colpire il cuore (e gli ormoni) delle adolescenti (qualcuno ha detto One Direction?), ma dall’altro si sbagliava, perché un barlume di speranza c’è, da qualche parte, anche nella musica pop. Tracking list 01 Cruel World 02 Ultraviolence 03 Shades of Cool 04 Brooklyn Baby 05 West Coast 06 Sad Girl 07 Pretty When You Cry 08 Money Power Glory 09 Fucked My Way Up to the Top 10 Old Money 11 The Other Woman Non bisogna andare a cercare le star degli anni ’80 per trovarlo, non bisogna scomodare Madonna o i Duran Duran, perché l’artista che perlomeno sta provando a trasmettere un nuovo modo di fare musica pop è una ventinovenne americana, che si chiama Elizabeth Woolridge Grant, ma che per motivi penso chiari a tutti è conosciuta nel mondo dell’arte come Lana Del Rey. Acclamata ben prima che venisse rilasciato il suo album di debutto, Born To Die, non ha deluso le attese sfornando un album riassumibile in due aggettivi: calmo e malinconico. Un successo che l’aveva fatta salire nelle classifiche di tutto il mondo, a toccare e talvolta superare i cantanti con la sola passione del music business. Il problema per Lana ora era la riconferma, perché, come dice Caparezza, “il secondo album è sempre più difficile, nella carriera di un artista”. Ecco che quindi la newyorkese si è accinta a rilasciare un nuovo album e a compiere il definitivo salto di qualità per confermare il suo posto nell’elitè del pop, conquistato con l’entusiasmo (scarso, a dire il vero) del debutto. Ultraviolence si presenta così, come la prova del nove, e sicuramente Lana questo l’ha capito bene. Già da Cruel World si nota una certa maturità sia nella modulazione della voce, con un cantato che passa da momenti sussurrati ad altri molto profondi, sia a livello di composizione. Le melodie qui appaiono minimali ma al tempo stesso raffinate, per nulla scontate, perfette per introdurre in questi sei minuti un’atmosfera surreale che pervaderà in tutto l’album, in una sorta di viaggio psichedelico. L’ottima opener viene confermata dalla title-track, in cui melodie ricercate la fanno da padrone e la voce calda di Lana diventa quasi un sottofondo, con quel cantato svogliato e convinto, adatto a far entrare del tutto l’ascoltatore all’interno del mondo di Lana Del Rey. Shades Of Cool è stato il singolo che ha preceduto l’uscita di questo lavoro, inizia con un arpeggio semplice alla chitarra, che si accosta pregevolmente alla linea vocale malinconica della cantante. Il ritornello commovente ricorda molto le ballad apprezzate sulla scena pop e rock degli anni ’90, seppur la base e il genere sia ben differente. Forse alla lunga annoia un po’, ma il finale vagamente psichedelico richiama l’attenzione dell’ascoltatore in un brano che conferma quanto di buono sentito nei due precedenti. Brooklyn Baby vanta un’atmosfera quasi serena, spensierata, un pezzo raro nel repertorio di Lana, insomma. Anche qui ci sono richiami alle band della fine dello scorso millennio, in particolare qui le melodie sono molto vicine al primordiale trip-hop dei Massive Attack e alle canzoni più soft dei Cranberries di Dolores O’ Riordan. Il chorus è strano ma allo stesso tempo orecchiabile, le strofe e il bridge annoiano un po’, ma questo non basta per sminuire la prestazione della cantante anche in questa traccia. Ma questo disco non finisce mai di sorprendere, ed ecco che West Coast nell’introduzione e nella strofa ci presenta una base molto simile a Have A Cigar dei Pink Floyd settantiani sovrastata – ma non troppo- dalla voce di Lana Del Rey. Nel ritornello si ritorna a sonorità più nello standard e nel target della cantautrice statunitense, per poi ritornare alle sonorità prog rock dell’intro, in quella che nel complesso risulta essere una canzone molto ben strutturata, la migliore finora. Con Sad Girl continuano i richiami agli anni ’70, anche se meno marcati e più fusi al pop. La solita inconfondibile voce di Lana Del Rey trascina il pezzo in tutta la sua consueta malinconia, con linee vocali sempre impeccabili e ricercate. Pretty When You Cry si mantiene sui livelli delle precedenti, anche se purtroppo sembra formata dagli scarti dei brani precedenti. Comunque non è da considerare un passo falso, almeno dal punto di vista musicale. Lasciando perdere il titolo, Money Power Glory è forse il pezzo più vicino al precedente album e più tendente al trip-hop, con una drumline essenziale, tastiere onnipresenti e la chitarra che fa qualche comparsa, rigorosamente in arpeggio. È uno dei pezzi sicuramente più riusciti dal punto di vista della base, mentre qui Lana sembra tentennare sugli acuti, sicuramente un effetto creato apposta, ma che non si sposa perfettamente con la melodia di sottofondo e finisce per il rovinare parzialmente la complessiva riuscita della traccia. Il punto più alto forse di tutto il lavoro arriva con la nona traccia, Fucked My Way Up To The Top, caratterizzata da un ritornello convincente e da, come al solito, una base musicale decisamente all’altezza, elettronica quanto basta. Canzone triste e orecchiabile, praticamente perfetta, se si guardano gli standard compositivi della vocalist. Old Money strizza un’altra occhiata decisa al trip-hop, che viene comunque impreziosito dal solito tappeto malinconico di tastiere e dalla voce di Lana Del Rey che danno vita ad uno dei pezzi meno riusciti del lavoro, ma che comunque è di alto livello – tanto per dimostrare il valore di questo Ultraviolence. Il pezzo conclusivo The Other Woman è pervaso da un’insolita atmosfera retrò, anche per via del filtro applicato alla voce di Lana, che in questa traccia ricorda molto quella delle cantanti del jazz anni ’40-‘50. Il brano è molto adatto per la conclusione di questo album, poiché nei suoi tre minuti racchiude una melodia liscia, scorrevole, trascinata dalla voce sublime della giovane newyorkese. Un brano che suona come un addio, un ultimo saluto dal mondo psichedelico e inquieto di Lana Del Rey. Ultraviolence è, fino ad ora, la migliore uscita pop di questo 2014, senza troppi giri di parole. È un album musicalmente eccezionale, che trova la sua unica pecca nelle liriche spesso troppo estremizzate, come in “Money Power Glory” o in “Cruel World”. Lana ha acquisito una consapevolezza nei suoi mezzi impressionante, che le ha permesso di essere più sicura sulle linee vocali e di essere in grado di osare di più. Scordatevi, difatti, i giri armonici paurosamente catchy dell’album di debutto, perché qui ogni pezzo ha una propria melodia, e quest’ultima è raffinata e sempre imprevedibile. Rispetto a Born To Die sono anche molto più presenti gli strumenti musicali, con una batteria che accompagna in modo consono tutte le tracce, un tappeto di tastiere onnipresente ma mai stancante e degli arpeggi di chitarra molto ben fatti, soprattutto in Shades Of Cool e nella settantiana West Coast. Il tutto senza perdere la solita inquietudine, la classica malinconia che ha reso Lana Del Rey una degli artisti musicali più apprezzati del momento. Ultraviolence è l’album della maturità, del tanto atteso salto di qualità di una delle più interessanti e originali proposte nel buio e spoglio panorama musicale di oggi. Voto 9. Carlo Chiesa

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