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Fra allergia e vertigini

Nelle poche giornate di sole vero la natura vibra e ieri è stata una di quelle giornate memorabili in cui sento forte la mia appartenenza alla terra. Fatico a descrivere ciò che la mia montagna è in grado di regalare a chi sa vedere. E cosa significa, dalle mie parti, la primavera che combatte l’inverno facendolo arretrare nelle retrovie, su verso la cima delle vette, e lo spazio appena strappato al gelo che da marrone e grigio vira al verde intenso e gli alberi che esplodono di foglioline verdi e di fiori nell’arco di una notte. E il colore del cielo, non più quel blu intenso che sconfina nel viola del tramonto invernale ma l’azzurro intenso che si schiarisce nell’avvicinarsi al bianco luccicante della neve rimasta. Momenti di euforia interiore, di stupore, di risposta estetica alle troppe domande irrisolte del mio vagare. Spiragli di assoluto. Non fosse per la rinite che mi ricorda che il combattimento non è solo spirituale ma anche fisico.  Cosa mi affascina di Sam Szafran?
Artista quasi sconosciuto eppure amatissimo da Leonardo Giannada che per la terza volta lo espone nel suo fantastico centro espositivo di Martigny, in Svizzera. La prima volta che lo vidi rimasi folgorato: quei quadri colmi di colore, eseguiti con precisione maniacale, quei gessetti colorati di mille sfumature, prospettive in equilibrio sul baratro, ambienti ripetuti decine di volte per segnalare l’evolversi della luce. Una vera folgorazione.
E le scale, tante, che precipitano, che ti portano in un vortice, che ti fanno venire le vertigini.
Anche Jakob si diverte quando capisce il meccanismo: diritto davanti al quadro alzi lo sguardo e vedi le scale dal basso in alto, poi davanti a te cosa vede il pittore, infine abbassi lo sguardo e le scale scendono. Poi leggo la sua biografia mentre mangiamo un panino nel parco delle sculture (“E’ possibile pestare l’erba” recita un cartello). Ora capisco. Sam è nato da genitori polacchi a Parigi. Genitori ebrei fuggiti dal nazismo. Il papà, soldato eroico, verrà poi deportato dagli stessi francesi e morirà deportato. Sam dovrà fuggire mille volte finché, a nove anni, verrà catturato e portato in un campo. Venti giorni prima della liberazione, ringraziando Dio. E capisco le scale, ossessione della sua vita. Lo zio materno, burbero, lo tenne con sè e lo “ospitava” sulla tromba delle scale, perché non desse fastidio. Impara a dipingere quando in Svizzera viene ospitato per uno scambio culturale per bambini reduci di guerra. Poi la miseria nera, i mille mestieri, la droga. E un incontro con una donna che lo risolleva. Ma sempre nell’ombra, chiuso nella sua voglia di capire. Pittura come autoanalisi, come introspezione, come ricerca di senso. Anche quando il suo unico figlio nasce disabile. I pastelli, le scale, i mille lavori. Un atelier che disegna cento volte da cento prospettive.
Per cercare. Per capire. Per galleggiare.
Cartier Bresson negli anno ’70 ne capisce la devastante disperazione e lo fotografa.
Ma solo negli anni ’90 i suoi dipinti cominciano a girare, a partire dall’amico Lèonard che fa una sua prima mostra proprio qui a Martigny.
Guardo una delle sue ultime opere: ancora scale. E la vita rappresentata come un pieghevole. E sopra e sotto e a lato i tetti di Parigi. E fra le pieghe del dèpliant della sua vita vedo uno scheletro che corre. La morte che scappa.
E con lui, per un attimo, guardo la tromba delle scale della vita. Provo vertigini.
Paolo Curtaz

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