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DAL LIBRO: IL CIBO E GLI UOMINI (1^Parte)

Mi è stato regalato il libro: “IL CIBO E GLI UOMINI” ( disponibile presso il Museo Bergomi), a cura di Luigi Mariani e Massimo Pirovano, regalo  che ho molto apprezzato e letto con molto interesse: preziose notizie su cibi e cultura del cibo in Lombardia, soprattutto nella generazione precedente alla mia. Nelle descrizioni e nelle interviste rivivono pagine di storia popolare lombarda in campagna e nei paesi, storie di povertà che faceva affinare la fantasia delle massaie per riuscire a mettere insieme ogni giorno pasti per grandi famiglie con poca materia prima. Si mangiavano minestre e zuppe, erbe selvatiche raccolte in ogni stagione, condimenti vari derivati dal maiale con polenta, più abbondante del companatico, anzi a volte c’era solo quella, “polenta surda”, cotta sul focolare del camino nel paiolo di rame.
La polenta diventava anche una palla farcita di formaggio per essere trasportata nei campi, mangiata fredda o abbrustolita. La carne era riservata ai pranzi festivi, e se era scadente si  rendeva più appetitosa con lunga cottura e  aggiungendo patate, cipolle o fagioli; il pesce solo nei venerdì di magro (tranne nelle zone vicine ai laghi), classico “èl rènch” (l’aringa) economico anche perchè si mangiava più l’intingolo che la sostanza; formaggio e qualche uovo. 
Da un unico paiolo o tagliere venivano serviti in ordine: uomini in età lavorativa, anziani e bambini, donne, ciascuno con le proprie dosi. Chi abitava in paese e non aveva cibi di sua produzione mangiava peggio. Classica la trippa cotta molte ore nella notte di Natale, dolci a Natale e Pasqua cotti nel forno della stufa oppure, in paese, portati  dal fornaio.
C’è ancora la tradizione in alcune famiglie a Natale di preparare un posto in più a tavola per un caro morto e nel passato dopo la cena della vigilia si andava al cimitero lasciando il fuoco acceso con un grande ceppo che durava tutta la notte e la tavola apparecchiata,  per la convinzione che gli antenati tornassero al luogo d’origine. Alla vigilia dei morti si cuocevano fagioli e cotiche, il pane dei morti (pane dolce con canditi), biscotti a forma di osso, fatti con molti albumi per indurirli proprio come ossa, si lessavano le castagne e i “mòndoi”( castagne grosse senza buccia).
Il sabato santo si benedicevano acqua e fuoco e fuori dalla chiesa c’era un braciere in cui bruciare l’ulivo con altra legna e poi si portava a casa un tizzone per rinnovare il focolare. Erano segni della sacralità del camino, il centro della casa. Fino a quando non arrivò l’acqua corrente nelle case, erano le donne ad approvigionarsene, per cucinare e per bere. Il vino era solo per gli uomini, alimento energetico che supportava la loro dieta povera. Alle donne si dava solo dopo il parto, insieme a cibi calorici per aumentare il latte per il neonato. Di solito erano e sono tuttora le donne a cucinare, ma ci sono anche grandi uomini chef nei ristoranti. In età moderna nelle famiglie altolocate, dalla preparazione dei cibi dipendeva la vita del padrone: essendo diffidenti verso le donne, a volte anche sospettate di stregoneria, si preferivano maschi per sovrintendere e spesso anche per lavorare in cucina. Nelle case popolari invece tutti i lavori di casa toccavano alle donne. La cucina, essendo l’unica stanza riscaldata, dal fuoco e dalla stufa a legna serviva in inverno anche per le altre mansioni casalinghe: fare il bucato,  cagliare il latte, rammendare, cucire, lavorare a maglia, seguire i bambini nei compiti mentre si accudivano i più piccoli…  mentre di sera alcune di queste attività si svolgevano in stalla. 
Fine prima parte

Ornella Olfi

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