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13 Giugno 1981: l’Italia si ferma a Vermicino – 2^ parte

Verso le 13:00, su specifica richiesta dei soccorritori, arrivò sul posto un’altra perforatrice, più grande e potente della prima. All’incirca alla stessa ora andavano in onda le edizioni di mezza giornata del TG1 e del TG2: fu a questo punto che la RAI incominciò a occuparsi con vivo interesse del fatto (già affrontato con alcuni servizi trasmessi nei notiziari della notte precedente).
Il giornalista Piero Badaloni affermò che il comandante Pastorelli aveva diramato la previsione che nel giro di pochissime ore la perforazione si sarebbe conclusa e l’operazione di salvataggio sarebbe andata a buon fine; per questa ragione il TG1 si collegò in diretta con Vermicino, nella prospettiva di riprendere il salvataggio in tempo reale. Poco dopo anche il TG2 e il TG3 decisero di unirsi alla cronaca diretta dei fatti.
Nel frattempo attorno al pozzo si era raccolta una folla di circa 10 000 persone: fu a questo punto che incominciarono ad arrivare anche i venditori ambulanti di cibo e bevande. Probabilmente anche questo colossale assembramento (la zona non era transennata e chiunque poteva arrivare fino all’imboccatura della cavità) ebbe un ruolo rilevante nel rallentare la macchina dei soccorsi.
Intorno alle 16:00 entrò in azione la seconda perforatrice: la prima era riuscita a scavare un pozzo di 20 metri di profondità (contro i 25 pronosticati all’inizio) e 50 cm di diametro. I tecnici operatori di questa nuova macchina, che l’avevano montata a tempo di record (3 ore contro le 12 previste dal manuale), sottolinearono la cospicuità del problema rappresentato dal sottosuolo duro e compatto, prevedendo non meno di 8-12 ore di lavoro per arrivare alla profondità richiesta.
Alle 18:22 il pozzo parallelo aveva raggiunto una profondità di 21 metri e 4 centimetri: la sonda continua a scavare con difficoltà. Interpellato allo scopo, Elvezio Fava, primario di rianimazione all’ospedale San Giovanni, si dedicò a controllare le condizioni di salute del bambino, che era affetto da una cardiopatia congenita in attesa di essere operata a settembre: per il momento non si ravvisavano disfunzioni.
Alle ore 20:00 entrò in funzione un terzo impianto di perforazione, più piccolo e agile; al contempo fu calata nel pozzo una flebo di acqua e zucchero, per tentare di dissetare Alfredino.
Ritenendo non più necessario lasciare libere le frequenze, le stazioni radio locali ripresero le trasmissioni in onde medie. Alle 21:30 si rese necessaria una pausa nella perforazione; alle 23:00 fu autorizzato a scendere nel pozzo un volontario: Isidoro Mirabella, un manovale siciliano 52enne, residente a Castelchiodato di Mentana, dal fisico minuto e subito ribattezzato “l’Uomo Ragno”; egli però, a causa di ostacoli tecnici, non riuscì ad avvicinarsi a sufficienza al bambino, anche se poté parlargli.
Alle 7:30 del 12 giugno la perforatrice era scesa soltanto a 25 metri di profondità. Un’ora e mezzo dopo incontrò un terreno più morbido, che le consentì di accelerare la discesa; nel frattempo i soccorritori continuavano a parlare col bambino, che aveva cominciato a piangere dicendo di essere stanco, tramite l’elettro-sonda (primo fra tutti il pompiere Nando Broglio, che non lasciò un attimo il bordo del pozzo). Alle 10:10 lo scavo parallelo era arrivato a una profondità di 30 metri e 5 centimetri e un ingegnere dei vigili del fuoco rivide al ribasso la stima della profondità cui si trovava il bambino: 32,5 m invece di 36.
Si decise pertanto di accelerare i lavori e di incominciare immediatamente a scavare il raccordo orizzontale fra i due pozzi, prevedendo di sbucare un paio di metri sopra Alfredino. Alle 11:00 giunse sul posto una scavatrice a pressione per scavare il tunnel di connessione, che tuttavia si bloccò poco dopo l’accensione. Tre vigili del fuoco incominciarono quindi a scavare a mano. Nel frattempo Alfredo aveva smesso di rispondere ai soccorritori, e i medici presenti sul posto, che ascoltavano il suo respiro, riferirono che stava peggiorando: 48 espirazioni al minuto.
Alle 16:30 giunse sul posto il Presidente della Repubblica Sandro Pertini. Alle 19:00 il cunicolo orizzontale fu completato e finalmente il pozzo di Alfredino fu posto in comunicazione con il pozzo parallelo, a 34 metri di profondità. Tuttavia, 

si dovette prendere atto del fatto che Alfredino non era nelle vicinanze del foro appena aperto: probabilmente anche a causa delle vibrazioni causate dalla perforazione, era scivolato molto più in basso. E nemmeno si sapeva di quanto. Pastorelli richiamò gli speleologi e Bernabei fu calato nel secondo pozzo, si affacciò dal cunicolo orizzontale e calò una torcia legata ad una cimetta per calcolare almeno in termini di massima la posizione del bimbo, che risultò lontano circa una trentina di metri. In seguito, si accertò che Alfredino si trovava a circa 60 metri dalla superficie.
L’unica possibilità rimasta era la discesa di qualche volontario lungo il pozzo artesiano, fino a quota -60 metri. Il primo fu uno speleologo, Claudio Aprile, che si pensò di introdurre nel pozzo artesiano dal cunicolo orizzontale; tuttavia, l’apertura di comunicazione si rivelò troppo stretta per permettere di accedere da lì al pozzo artesiano ed il giovane speleologo dovette desistere. Un coraggioso volontario, Angelo Licheri, piccolo di statura e molto magro, autista-facchino presso la tipografia romana “Quintily” di via di Donna Olimpia, si fece calare nel pozzo artesiano per tutti i 60 metri di distanza dal bambino.Licheri, cominciata la discesa poco dopo la mezzanotte fra il 12 ed il 13 giugno, riuscì ad avvicinarsi al bambino, tentò di allacciargli l’imbracatura per tirarlo fuori dal pozzo, ma per ben tre volte l’imbracatura si aprì; tentò allora di prenderlo per le braccia, ma il bambino scivolò ancora più in profondità. Per di più, nell’effettuare il suo coraggioso tentativo, involontariamente gli spezzò anche il polso sinistro. In tutto, Licheri rimase a testa in giù ben 45 minuti, contro i 25 considerati soglia massima di sicurezza in quella posizione, ma dovette anch’egli tornare in superficie senza Alfredino.
Dopo Licheri cominciarono ad offrirsi vari volontari, fra cui nani, esperti di pozzi e persino un contorsionista circense soprannominato “Denis Rock”. Intorno alle ore 3:00 venne imbracato, per un altro tentativo, Pietro Molino, un ragazzo di 16 anni originario di Napoli, anch’esso di corporatura esile e giunto sul posto accompagnato da un cugino, ma poiché minorenne e senza il diretto consenso dei genitori per tentare di salvare Alfredino, il ragazzo venne fermato dal magistrato presente sul posto, proprio nel momento in cui era pronto ad effettuare la discesa.
Verso le 5:00 del mattino ebbe inizio il tentativo di un altro speleologo, Donato Caruso. Anch’egli raggiunse il bambino e provò a imbracarlo, ma le fettucce da contenzione psichiatrica che aveva usato e che avrebbero dovuto assicurare una sorta di effetto cappio, scivolarono via al primo strattone. Caruso si fece ritirare su fino al cunicolo di collegamento, dove si fermò per riposare e poi ritentare.
Dopo un poco, infatti, ridiscese. Effettuò altri tentativi con delle manette, metodo molto più rischioso anche per il soccorritore perché queste erano legate alla stessa sua corda di sicurezza. Alla fine, anche Caruso tornò in superficie senza essere riuscito nell’

intento, riportando inoltre la notizia della probabile morte di Alfredino.
La morte
«Volevamo vedere un fatto di vita, e abbiamo visto un fatto di morte. Ci siamo arresi, abbiamo continuato fino all’ultimo. Ci domanderemo a lungo prossimamente a cosa è servito tutto questo, che cosa abbiamo voluto dimenticare, che cosa ci dovremmo ricordare, che cosa dovremo amare, che cosa dobbiamo odiare. È stata la registrazione di una sconfitta, purtroppo: 60 ore di lotta invano per Alfredo Rampi. »
(Giancarlo Santalmassi durante l’edizione straordinaria del Tg2 del 13 giugno 1981.)

Dopo la dichiarazione di morte presunta, per assicurare la conservazione del corpo, il magistrato competente ordinò che fosse immesso nel pozzo del gas refrigerante (azoto liquido a −30 °C). Il cadavere fu poi recuperato da tre squadre di minatori della miniera di Gavorrano l’11 luglio seguente, ben 28 giorni dopo la morte del bambino. I ventuno minatori furono allertati quando ormai ogni speranza era sfumata e si trattava soltanto di recuperare la salma per darle sepoltura. Composero la squadra Italico Neri, Floriano Matteini, Leonello Lupi, Renato Bianchi, Ledo Mancini, Sirio Mengozzi, Giovanni Anedda, Mario Balatresi, Franco Montanari, Lauro Tognoni, Alberto Torresi, Spartaco Stacchini, Rino Paradisi, Silvano Monaci, Alberto Brachini, Renzo Galdi, Mario Zanaboni, Mario Deidda, Aldo Tommasselli, Pellegrino Falconi e lo stesso Torello Martinozzi. I minatori raggiunsero Vermicino il quattro luglio e, dopo aver piazzato le loro attrezzature, si calarono nel tunnel parallelo profondo 70 metri con 

un diametro di 90 centimetri scavato dai vigili del fuoco a sedici metri dal pozzo artesiano nel quale era caduto Alfredino. Il loro compito era quello di realizzare una galleria per raggiungere il punto esatto dove giaceva il corpo del bambino.
Fu un intervento complesso e pericoloso. I minatori lavorarono in tre turni continui e dopo sei giorni, intorno alla mezzanotte del 10 luglio, ebbero la percezione di essere vicini alla meta. “Era come se stessero lavorando nella loro miniera scavando per tentare di salvare un loro compagno sommerso da una frana” raccontarono le cronache. Verso le sette del mattino del giorno successivo il cadavere di Alfredino fu raggiunto. Dopo ulteriori otto ore di lavoro, quando erano circa le tre del pomeriggio fu portato in superficie. “I minatori di Gavorrano smontano le attrezzature in silenzio e con gli occhi lucidi, lasciando quel luogo di tragedia divenuto, nei giorni precedenti, palcoscenico di spettacolo”. Fecero ritorno in provincia di Grosseto “disdegnando ogni forma di protagonismo mentre, da settimane, andava in onda il tormentone delle interviste televisive”. Qualche mese dopo la morte del figlio, la madre di Alfredino, Franca Rampi, fondò il “Centro Alfredo Rampi” (poi divenuto una ONLUS), che da allora si occupa di formazione alla prevenzione e di educazione al rischio ambientale. È ormai accertato che nei soccorsi mancarono organizzazione e coordinamento. Ad esempio non fu mai transennata la zona intorno al pozzo, tanto che chiunque poteva avvicinarsi a esso e persino guardarvi dentro. Di tutti gli errori e le manchevolezze la madre di Alfredino, Franca Rampi, parlò al Presidente Pertini, intervenuto sul luogo della tragedia, promuovendo di fatto la nascita della Protezione Civile, all’epoca ancora solo sulla carta. I funerali di Alfredino si svolsero il 17 luglio 1981 nella Basilica di San Lorenzo fuori le mura; la piccola salma venne trasportata da quegli stessi volontari che tentarono di salvarlo, fra cui Angelo Licheri e Donato Caruso. Infine fu sepolto presso il Cimitero del Verano di Roma; nel 2015 venne sepolto accanto ad Alfredino il fratello minore Riccardo, morto per arresto cardiaco ad appena 36 anni. Oggi in Italia esistono sette vie intitolate ad Alfredo Rampi, situate nei comuni di: Aci Catena nel catanese, Buccinasco nel milanese, nella frazione cagliaritana Pirri, Surbo nel leccese, Force nell’ascolano, San Marco Evangelista e Lusciano nel casertano.
Fonte: wikipedia – fine

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