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Vita indomita

L’’uomo è appoggiato al muro, e fa la posta al medico, aspetta che esca da quella porta per chiedere notizie che già sa, che già gli sono state date. Ma qualcosa sfugge sempre; l’agitazione gli fa perdere metà delle parole che l’altro gli sta dicendo, mentre lui di quelle parole ha un disperato bisogno, a quelle parole si aggrappa come a una zattera malconcia in mezzo all’oceano.
Perché è inconcepibile che un figlio, trentenne, nel pieno della sua vita, possa non tornare più quello di prima dopo un incidente in moto. Non può andare così. Ci vorrà tempo, non importa. Il tempo che ci vorrà. Ma lui deve tornare alla sua vita di prima. Ha gli occhi lucidi, e si zittisce per trangugiare lacrime che non vuole far scendere. Si scusa per questo.
Le persone si scusano sempre quando piangono, come se fosse vergognoso, fuori luogo.
Il re è nudo, e il pianto rivela la nudità dell’anima dolorante e disorientata, che si ritrova fragile, sconfortata.
Sto in piedi con lui, lì, nel corridoio del reparto. Alla faccia dei setting terapeutici, mi capita di parlare in ogni luogo, in piedi, seduta sui gradini, affumicata dalle sigarette altrui nell’area fumatori. Ho capito che si può parlare quasi ovunque, e che il setting si crea quando si crea la relazione. La relazione crea lo spazio in cui si può stare; spazio protetto, riservato nonostante la mancanza di una porta chiusa.
Non so se suo figlio tornerà quello di prima.
Mi scorrono nella mente sguardi smarriti di madri e di padri, i cui figli non sono tornati quelli di prima. E anche quando va bene, la vita comunque cambia. Qualche volta in meglio, nonostante i problemi. Spero sia il loro caso, si spera sempre.
Torniamo verso la stanza, e vedo la madre che, seduta accanto al letto, lavora a maglia. Ad ogni sferruzzata ricerca un po’ di normalità, un po’ di quotidiano. Anche lei ha bisogno della sua zattera per non essere spazzata via dalle onde del dolore e dell’ansia.
Penso ai terremoti, ai tanti possibili disastri naturali: appena possibile, la vita normale cerca di riprendere il sopravvento. Si cucina, si mangia, si sta insieme, si va a lavorare. In guerra la gente continua a cercare di fare la propria vita, cucina, lava, mette ordine anche in un rifugio, quando è possibile.
Mi colpisce sempre questo aspetto degli esseri umani. Penso alle formiche che, qualunque cosa le allontani dal loro obiettivo, appena passa, ritornano sulla loro strada. Sono lì che trasportano il loro tesoro, tu metti un ostacolo, loro lo aggirano e si rimettono in marcia.
Così noi. Cerchiamo di riprendere la nostra vita, il nostro quotidiano, adattandolo alle condizioni, con l’istinto di sopravvivenza che non ci fa mollare il tesoro che portiamo, formichine instancabili e indomite.
Commovente. Ogni volta.
Barbara

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