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Vita di missione

C’è un tarlo che mi rode; fantasia, pensiero, a volte rammarico mi portano in Africa. Adesso che Don Piero è qui per le vacanze e mi parla di quello che fanno e di quello che si potrebbe fare mi viene un magone che neanche immaginate se non ci fosse il vuoto lasciato da me. Mi trovo molto bene qui a Viadana e Malpaga (Fraz. Di calvisano ndr.). Sento che la vita di missione degli anni passati non è più alla mia portata, ma che volete, quella vita me la sogno anche di notte, con le sue gioie e con le sue pene. Più viva la nostalgia adesso che sto seguendo lo smarrimento di mio fratello che pronto a partire è stato ricoverato di nuovo in cardiologia. Il treno per Roma era alla 7. Mi sono alzato per tempo in modo da non perderlo. Mio fratello era già vestito, ma seduto sul letto, un po’ confuso, senza nemmeno la forza di alzarsi in piedi. “Se non ti fa niente, mi porterai al treno nel pomeriggio, adesso sto male!”. Invece che al treno qualcuno l’ha portato al pronto soccorso. Di nuovo ricoverato in cardiologia, un infartino, gli hanno detto. Angioplastica e poi si vedrà… Quante figure di missionari mi passano per la mente. Si chiamava don Alberto. Era di Ferrara. E’ stato il mio primo parroco in Zaire. Devo a lui se sono riuscito a fare qualcosa di bello come missionario. Uomo di misericordia, di una delicatezza coi poveri che raramente ho incontrato in altri. Aveva i genitori entrambi che passavano i 90 anni e tutti gli dicevano che sarebbe diventato centenario. E invece una mattina l’ho cercato a scuola dove aveva una lezione. “E’ uscito”, mi hanno detto. Cerca e cerca alla fine l’ho trovato a letto. Aveva chiuso gli scuri ed aveva il fiatone. “Alberto, cos’hai?” –  e lui mi risponde in francese. Mai parlavamo in francese tra noi. Arrivano gli altri sacerdoti, vengono le infermiere che ormai straparlava. Lontani da ogni ospedale affidabile, siamo riusciti, ancora non so come, a far arrivare un piccolo aereo e a mandarlo in un ospedale dei belgi nella città più vicina. Prima diagnosi: malaria cerebrale. E con quella non si scherza. Molti non l’hanno passata liscia. Lui dopo un coma di una settimana, si è svegliato ma aveva perso la memoria. Non sapeva più nemmeno il Padre Nostro. I padri saveriani l’hanno portato a casa e un po’ alla volta l’hanno rieducato. La prima messa da solo l’ha celebrata dopo un mese, perché la memoria tornava un po’ alla volta. Siamo scesi a salutarlo quando i medici gli hanno danto l’ok per il viaggio di ritorno in Italia. Non l’abbiamo più visto. Dopo un anno è morto. Un tumore al cervello, altro che malaria. E’ morto pensando fino all’ultimo alla sua missione e a noi. Aveva 67 anni… La malaria ci colpiva spesso nello Zaire. C’erano le cure ma la spossatezza che lasciava era grande. Come ricostituente don Alberto mi portava un bicchiere di vino della messa. Era una cosa rara e preziosa in quelle foreste. Faceva bene il vino di don Alberto. Anzi faceva bene due volte: la malaria la prendeva spesso anche lui. Gli restituivo la gentilezza: “Alberto, guarda, ti ho portato un bicchiere di vino dolce. Bevilo.” Ma le sue malarie erano sempre brutte, di quelle che lasciavano lo stomaco in subbuglio. “No, lascia, non riesco a mandar giù niente”. Che fare? Rimettere il vino nella bottiglia con il rischio di rovesciare quel ben di Dio? “Guarda Alberto, non ce la fai proprio? Quando è così lo devo bere io”. E così le malarie di don Alberto Dioli (questo il suo cognome) davano il ricostituente a me. Era il 1988. Tarcisio Moreschi ha un anno più di me. E’ stato lui a farmi arrivare in Zaire. Ha sempre fatto il missionario. Il primo anno ancora non era prete. 43 anni di Africa, Burundi, Zaire e adesso Tanzania. E’ stato qui quest’estate a salutarmi. Da molti anni è solo come missionario. Adesso s’è messo il cuore in pace. Ma all’inizio questa solitudine senza prospettive di un aiuto da parte della diocesi gli pesava. “Metto una sbarra all’ingresso della missione e un cartello: vietato entrare a qualsiasi rappresentante della diocesi di Brescia”. “Ciso, risparmia il lavoro, sta sicuro che della diocesi di Brescia non vedrai nessuno”. Non so se il cartello alla fine l’ha messo, tanta gente che sente la missione ha varcato quel cancello e ha collaborato con lui in mille modi. Finalmente in questo 2015 qualcuno della diocesi  l’ha visitato. Esiste una rivista che si chiama KIREMBA. Sulla copertina del numero di ottobre c’è proprio lui, seduto con i ragazzi in una delle tante chiese che ha costruito.

Don Bruno

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