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VIRUS HIV, OVVERO AIDS

La storia della diffusione dell’AIDS su scala pandemica viene solitamente fatta incominciare nel 1981, quando fu riconosciuta l’esistenza di una nuova malattia in alcuni pazienti negli Stati Uniti: in realtà l’infezione esisteva già da molti anni, ma era stata sempre scambiata per altro.
L’esistenza di virus è documentata in natura in varie specie animali, tra i quali sono più noti il FIV (Feline Immunodeficiency Virus), legato ai felini e in particolare al gatto, e il SIV (Simian Immunodeficiency Virus), legato a varie specie di scimmie. Dal virus SIVcpz dello scimpanzé Pan troglodytes troglodytes deriverebbe il ceppo HIV-1 mentre dal virus SIVsmm, che colpisce le scimmie Sooty Mangabey, deriverebbe il ceppo HIV-2, dotato di patogenicità e contagiosità più limitate, che è rimasto confinato nei luoghi di origine. La trasmissione uomo/scimmia dovette avvenire tramite il contatto tra liquidi biologici (ad esempio morso).
Vi sono prove che gli esseri umani che partecipano ad attività di caccia e di vendita di carne e pelli di scimmia abbiano contratto il SIV (teoria del cacciatore); tuttavia, solo alcune di queste infezioni sono state in grado di causare epidemie nell’uomo, e tutte si sono verificate tra la fine del XIX secolo e l’inizio del XX secolo. Il primo caso di sieropositività accertato risale al 1959, quando venne prelevato da un uomo di Leopoldville (oggi Kinshasa) un campione di sangue che, analizzato trent’anni dopo, dimostrò di contenere anticorpi all’HIV-1.
Non è chiaro perché pratiche di caccia e macellazione in atto da secoli abbiano prodotto un’epidemia che si è sviluppata documentatamente solo sul finire degli anni cinquanta, magari facilitata dal crearsi di più stretti contatti ambientali tra uomo e scimmia, a seguito della progressiva coltivazione della savana.
Diversi laboratori di microbiologia hanno effettuato ricerche sul gruppo principale dell’HIV-1 concludendo tutte che l’introduzione dell’HIV-1 nell’uomo è avvenuta nella prima metà del XX secolo (1915-1941 circa o, secondo altri studi del 2008, entro il 1908-1930). Nel 1931 è infatti individuabile una prima descrizione dei sintomi della sindrome dell’immunodeficienza umana acquisita, sebbene non riconosciuta come tale. L’analisi nel 2019 su un campione di tessuto del 1966 proveniente dalla Repubblica del Congo, da cui è stato possibile estrarre una copia del genoma completo dell’HIV, ha potuto retrodatare la prima infezione tra il 1881 e il 1918.

Diffusasi in maniera esponenziale in tutto il mondo, diventando una vera e propria pandemia, fu a lungo mortale in percentuali vicine al 100% dei casi diagnosticati (pur nella variabilità dei tempi di sviluppo dei sintomi). Inoltre, la connessione presto dimostrata con la sfera sessuale e con l’uso di sostanze stupefacenti (eroina) legò indissolubilmente il contagio, nell’opinione generale, a comportamenti stigmatizzabili, in quanto “trasgressivi”.

Dal 1996 una combinazione di farmaci riesce a “immobilizzare” il virus negli individui, bloccando lo sviluppo della sindrome immunodepressiva, ma non a eradicarlo, cronicizzando quindi l’infezione. Tutt’altro che debellata, la sindrome da HIV è diventata endemica nei paesi sviluppati, dove è crollato il numero di decessi, ma non quello dei contagi, mentre è ancora uno dei più gravi fattori di mortalità nei paesi in via di sviluppo, all’origine di gravi problematiche sociali, etiche, economiche e organizzative. Nel 1982 alcuni primi casi si verificarono tra gli emofiliaci, obbligati a ricevere continue trasfusioni, e cominciò a farsi strada l’idea che il contagio fosse legato a un’anomalia del sangue, svanendo presto l’illusione del contagio chimico. A fine anno morì un primo bambino emofiliaco per una trasfusione infetta e si registrò il primo caso documentato di trasmissione verticale materno-fetale: per l’opinione pubblica fu un vero e proprio trauma.

Nel 1982 si registrarono i primi casi in Italia, Canada, Brasile. In Italia in particolare il primo caso era legato a un paziente omosessuale che si era recato più volte negli Stati Uniti; nel 1983 i casi erano 4, con caratteristiche simili, e nel 1984 ben 18, tra cui un primo caso, a Milano, di paziente tossicodipendente che non era mai stato all’estero. I casi negli USA nel 1982 salirono a 1.614 con 619 decessi. Per il 1983 i dati individuavano 642 omosessuali maschi contagiati, 154 tossicodipendenti, 81 tossicodipendenti omosessuali, 50 soggetti haitiani immigrati e 61 a epidemiologia ignota.

Si stima che la Taylor abbia aiutato alla raccolta di circa 50 000 000 $ per la lotta alla malattia. Nel 1984 vittime della discriminazione fu anche il ragazzo emofiliaco Ryan White, che dopo un’iniezione di sangue contaminato contrasse il virus. Una delle prime vittime eterosessuali famose fu Arthur Ashe, tennista statunitense, che fu diagnosticato come positivo all’HIV il 31 agosto 1988, dopo aver contratto il virus da trasfusioni di sangue durante un intervento chirurgico al cuore.
Una vittima celebre nel Regno Unito fu Nicholas Eden, Lord Avon (m. 1985), membro gay della Camera dei lord e figlio del defunto Primo Ministro del Regno Unito Anthony Eden.
Il virus provocò forse la sua più celebre vittima il 24 novembre 1991, quando la rockstar Freddie Mercury, cantante e frontman dei Queen, morì per una patologia correlata all’AIDS dopo aver annunciato la malattia soltanto il giorno precedente. Poco dopo seguì quella del ballerino Rudol’f Nureev (1993). In Francia Michel Foucault tenne rigorosamente nascosta la sua malattia, morendo nel 1984. In Italia la scomparsa dello scrittore Pier Vittorio Tondelli fu un fatto privato, reso noto solo dopo l’esito fatale (1991); solo nel 1992 un personaggio pubblico fece sentire la sua voce, il giornalista Giovanni Forti. Nel 1987, a tempo di record (entrando negli annali della storia della medicina), fu approvato un primo farmaco, la molecola dell’AZT. Sebbene i risultati della terapia si sarebbero dimostrati non pienamente soddisfacenti, per la relativa facilità con cui il virus riusciva a sviluppare ceppi resistenti al farmaco, il farmaco dimostrò di prolungare la vita dei pazienti rallentando lo sviluppo della sindrome. Nonostante le difficoltà di assunzione e i pesanti effetti collaterali, il farmaco riaccese la speranza di decine di migliaia di contagiati. Nel 1988 venne istituita la Giornata mondiale contro l’AIDS, ogni anno il 1º dicembre: dietro tale data non c’è un evento particolarmente significativo, ma essa venne scelta in modo da ottenere la massima copertura mediatica, dopo le elezioni USA e prima del periodo natalizio.

In Italia, il nuovo ministro Francesco De Lorenzo fece andare in onda nel 1989 la più efficace comunicazione di massa sull’AIDS nel pubblico italiano, con una serie di spot televisivi in cui venivano mostrati i modi di contagio.
Celebre lo slogan “AIDS, se lo conosci lo eviti”. Nel 1990 I dati parlavano di 254 000 casi di AIDS nel mondo (6 759 in Italia), con i sieropositivi stimati in circa 10 milioni.
Nel 1991 venne approvato un nuovo farmaco anti AIDS, la DDI che, come l’AZT, mirava a impedire la trascrittasi inversa agendo sugli enzimi coinvolti. Nel 1993 scoppiò in Francia – e poi in altri paesi tra cui l’Italia – lo scandalo del sangue infetto che fece arrestare e condannare quattro funzionari della banca del sangue.
L’ingresso sul mercato del D4T si ebbe nel 1994. In quel periodo i malati di AIDS nel mondo erano saliti del 37%, con 985.119 casi complessivi, dei quali il 42% negli Stati Uniti, il 33,5% in Africa, l’11,5% in Europa, l’11,5% nelle Americhe, l’1% in Asia e lo 0,5% in Oceania; i sieropositivi erano stimati in 16 milioni, di cui un milione solo di bambini in Africa. In Italia i dati parlavano di un infettato ogni diecimila abitanti. La progressione farmacologica aveva già intaccato la mortalità per la malattia, che dal 100% nel 1984 era scesa al 77,5%. Ulteriori progressi, sebbene non ancora risolutivi, si registrarono nel 1995, quando furono approvati due inibitori: il saquinavir e il 3TC. Il 1995 fu anche l’anno che registrò il picco dell’epidemia, col massimo numero di nuovi casi: in Italia arrivarono a essere 4515.


Il 1996 fu l’anno della svolta che vide l’abbandono della monoterapia (AZT) e delle duplici terapie: a gennaio infatti furono presentati studi clinici sull’Haart (Highly Active Anti-Retroviral Therapy), che presto diventò lo standard mondiale nella cura dell’AIDS. Si tratta di una combinazione di due inibitori della trascrittasi inversa, il processo che permette al virus di trascrivere il proprio codice genetico (RNA) nello stesso linguaggio usato dal codice genetico delle cellule dell’uomo (DNA), impedendo di essere aggredito dai farmaci e dalla risposta immunitaria, e di un inibitore della proteasi, ovvero l’enzima che modella le macroproteine prodotte dalle cellule infettate in una forma idonea a dar vita a nuovi virus. Le possibilità terapeutiche si arricchìrono di nuovi farmaci e i risultati non tardarono ad arrivare: la mortalità per AIDS calò in modo rapido e netto (negli Stati Uniti si dimezza già dal primo anno), i ricoveri diminuirono in modo drastico. II messaggio che prendeva piede nell’opinione pubblica era infatti che l’AIDS fosse battuto e l’epidemia arrestata, confondendo il dato del decrescere della mortalità con quello dei nuovi contagi, che invece restò stabile, anzi in aumento. La situazione in Africa era infatti più che mai drammatica: stime parlavano dell’8% della popolazione sudafricana infetta, con 3,6 milioni di persone ammalate di AIDS. Tali dati facevano del Sudafrica il paese più colpito al mondo, con circa un quinto della popolazione infetta.
Fonte: Wikipedia

Nel 2000, a vent’anni dalla scoperta dell’epidemia, si calcolavano 16,3 milioni di decessi. Ai giorni nostri la morte per AIDS viene vista come un evento eccezionale, e il rischio di contagio è sistematicamente sottostimato, soprattutto nei giovani, che arrivano all’appuntamento con le prime esperienze sessuali privi delle adeguate conoscenze, e nella popolazione ultraquarantenne, soprattutto immigrata.


Le conseguenze di questo stato si leggono nel numero costante dei contagi, che si è stabilizzato e non accenna a diminuire (soprattutto per le trasmissioni di tipo sessuale), e nella fase ormai avanzata della malattia a cui arriva una fetta sempre più larga di persone ignare del proprio contagio. Tra il 40% e il 50% di HIV+ scoprono di esserlo solo alla prima infezione opportunistica, dopo essere stati per mesi o anni possibili fonti di contagio e quando non possono ormai più godere i benefici di una diagnosi precoce, richiedendo un più difficile trattamento terapeutico.

Nel 2020, sono state segnalate 1303 nuove diagnosi di infezione da HIV, pari ad un’incidenza di 2,2 nuovi casi per 100.000 residenti. L’incidenza di nuove diagnosi di HIV è in continua diminuzione dal 2012. Nel 79,9% dei casi le persone che hanno scoperto di essere HIV positive nel 2020 sono maschi. L’età mediia è di 40 anni per entrambi i sessi e l’incidenza più alta si riscontra nelle fasce d’età 25-29 anni (5,5 nuovi casi ogni 100.000 residenti) e 30-39 anni (5,2 nuovi casi ogni 100.000 residenti).

La maggioranza delle nuove diagnosi di infezione da HIV è attribuibile a rapporti sessuali non protetti da preservativo, che costituiscono l’88,1% di tutte le segnalazioni Il numero di nuove diagnosi di infezione da HIV in stranieri è in diminuzione dal 2017. Trent’anni dopo, 34 milioni di persone vivono con questo virus, circa 1,8 milioni muoiono di AIDS ogni anno, secondo i dati dell’UNAIDS, il Programma delle nazioni unite per l’AIDS/HIV, e un vaccino per distruggerlo ancora non é stato messo a punto.
Fonte www.epicentro.iss.it

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