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UNA PERSONA IMPORTANTE

Il servizio di leva militare obbligatorio è stato sospeso ormai da oltre vent’anni; personalmente credo che a molti giovanotti porterebbe un enorme beneficio nella loro formazione caratteriale, sarebbe veramente utile quale insegnamento nei rapporti sociali non solo con i loro coetanei, ma anche con le persone piu grandi. Oggigiorno si può scegliere di iscriversi volontariamente al servizio civile universale e poter così dedicare alcuni mesi della propria vita alla difesa non armata, non violenta della propria patria; anzi, questo servizio educa alla convivenza pacifica tra i popoli (mi sembra ve ne sia un gran bisogno). Ho avuto l’opportunità di parlare con un giovanotto che dopo le superiori ha scelto di vivere l’esperienza del servizio civile; dopo adeguata formazione gli era stato assegnato il compito di assistere anziani non autosufficienti, mi ha parlato di questo periodo come il più importante della sua vita, ha ricevuto affetto e nozioni di umanità straordinaria che a scuola o sui libri non avrebbe mai imparato, facendolo maturare come persona e uomo, inoltre, imparando pure un mestiere.

Durante i tre giorni della visita pre-militare (nel lontano 1981) avevo la possibilità di essere scartato, bastava presentassi la relazione medica riguardante la grave malattia che i miei reni avevano subito, cosa che non feci perché ero in una fase della mia vita molto delicato, avevo interrotto gli studi ed il duro lavoro nei campi e soprattutto in stalla cominciava a pesarmi enormemente, sentivo la necessità di staccarmi da tutto per riflettere sul mio futuro (un anno sabbatico come si suol dire), inoltre era per me una grande opportunità di conoscere il mondo oltre il ristretto perimetro del mio circondario.

Non ero mai stato in una stazione ferroviaria, il militare mi ha permesso di usufruire di molti servizi pubblici che per me erano ancora sconosciuti.
Sono partito il 30 luglio 1982 (7° scaglione 82) destinazione Fano (caserma Paolini), appena sceso dal treno ho cominciato a guardarmi attorno ed un giovanotto (di 6 anni più grande di me) mi fa: “ragazzo, per caso stai andando anche tu in Caserma per cominciare la leva militare?” – Ci siamo presentati, lui era Bruno Arena; assieme a Max Cavallari qualche anno dopo avrebbe dato vita al duo comico I Fichi D’India. Non aveva ancora subito il gravissimo incidente d’auto che gli cambiò di molto la fisionomia (francamente, non era molto bello neppure prima), mi disse che era un insegnante di educazione fisica, rimasi veramente colpito non solo dalla grande simpatia ma anche per la sua straordinaria cultura e saggezza; assieme a piedi ci avviammo verso la nostra destinazione militare.

Entrambi fummo assegnati al quadro permanente come effettivi della Caserma Paolini, lì a Fano, molte volte ho avuto con lui illuminanti scambi di vedute, proprio l’ultimo giorno di leva quando gli ho consegnato gli abiti da soldato (lui era Caporale istruttore), siamo stati più di mezz’ora a ragionare sul nostro futuro prima di uscire definitivamente dalla Caserma. I sogni che mi aveva preannunciato, è riuscito a realizzarli appieno, d’altronde aveva l’intelligenza e la caparbietà per riuscire in tutto quello che si era prefissato. Sono contento che i suoi desideri siano diventati realtà, ma profondamente triste per la sua prematura scomparsa.
Se Bruno Arena è stato il mio “saggio” di riferimento durante l’anno militare, tra le persone che hanno sicuramente contribuito a sconquassare radicalmente il mio modo d’essere, annovero un ragazzo di Grottaglie (Taranto) Angelo Sinisi, questo il suo nome; aveva la mia stessa statura, stessa corporatura, stessa età, la differenza più evidente era la carnagione: io bianco panna, lui moro d’africa.

Ci incontrammo dopo il giuramento nell’ufficio del Maggior Dipadova (comandante degli autisti della 5^ compagnia) era già presente Ezio (un soldato del nostro scaglione), il Maggiore ci informò che noi tre saremmo diventati futuri autisti della Caserma Paolini, dopo aver conseguito idonea patente presso un Battaglione di Bologna. Da quel giorno in poi è iniziata fra me e Angelo un’amicizia che col passare dei giorni è divenuta sempre più stretta e profonda, mentre con Ezio (l’altro futuro autista) non sono mai riuscito a legare.
Arrivati alla stazione centrale di Bologna abbiamo cercato una cabina per telefonare al Battaglione allo scopo di farci venire a prendere; fu Ezio a parlare: “noi siamo qua, venite a ritirarci” – e poi riattaccò, io e Angelo ci siamo guardati in faccia e dopo: “ma come cazzo fanno a sapere chi siamo e dove siamo se non glielo dici ?” Dopo quell’episodio, intuimmo che Ezio non avesse una mente molto brillante.

Nei quasi 2 mesi di permanenza nella gigantesca Caserma di Bologna (circa 2000 i soldati presenti) ne sono capitate di tutti i colori, descrivo uno dei tanti episodi: mancavano pochi giorni all’esame di guida finale, eravamo noi 3 futuri autisti di Fano su un furgone in centro a Bologna, seguivamo il camion utilizzato per le guide aspettando il nostro turno, il nostro furgone era guidato dal Sergente Steel (acciaio) così chiamato perché era un sottufficiale molto rigido tutto d’un pezzo, proprio lui avrebbe presieduto al nostro esame finale di guida nella cabina del camion (come fanno i cosiddetti ingegneri civili), ci stava facendo una predica sull’importanza e sacralità della famiglia come perno di essenziale importanza dove un uomo deve far girare la propria vita, ricordandoci con orgoglio che lui era felicemente sposato da vent’anni quando d’un tratto, fermi ad un semaforo, si avvicina una donna sulla trentina con un balcone semiscoperto della quinta misura (come minimo) e delle sottanine talmente corte ove si riusciva ad intuire il color rosso rubino delle sue mutandine; con le nocche battè contro il finestrino e rivolgendosi al Sergente: “ciao orsacchiotto, allora domani sera, stessa ora stesso posto? Non farmi aspettare, pucci pucci” – poi se ne andò sculettando.

Il Sergente diventò rosso borgogna mentre noi tre ci sbudellavamo dalle risate, il soldato d’acciaio tutto d’un pezzo aveva appena finito di farci la morale, una figura di merda… quando ci siamo ripresi dalla ridarella, Angelo si rivolse al Sergente “Steel” con queste testuali parole: “senti un po’ orsacchiotto, chissà cosa ne pensa tua moglie delle compagnie che frequenti la sera” – il sottufficiale ci guardò con gli occhi sbarrati dal terrore senza proferire una sola parola; era talmente sconvolto che neppure s’era accorto che il semaforo era verde già da un bel po’ ed il clacson delle auto dietro noi ridondavano per la via. Non abbiamo mai informato la moglie del Sergente riguardo al vizietto del marito, ma è stato un vero godimento tenere sulle spine quello stronzo d’un sottufficiale, bravo a predicare ma non a mettere in pratica i suoi insegnamenti.

Dopo circa 2 mesi siamo rientrati alla Caserma Paolini di Fano tutti e tre abilitati a guidare i mezzi dell’esercito e lì siamo rimasti fino al termine della leva. Fra me e Angelo Sinisi si era instaurato un rapporto d’amicizia profondissimo, nonostante fossimo di carattere completamente diversi; io sempre un po’ chiuso nel recinto dei fatti miei, lui estroverso, sempre allegro, chiacchierone fino allo sfinimento, generosissimo, con un cuore veramente grande: un giorno passando tra la camerata delle reclute vedemmo un ragazzo piangere disperato, io e Angelo abbiamo chiesto il motivo di tanto strazio e la recluta vicino la sua branda rispose che avevano telefonato in Caserma i familiari del suo amico informandolo che la mamma (48 anni) era morta d’infarto, e lui, poveretto, non aveva nemmeno i soldi per comprare il biglietto del treno (abitava a Palermo) perciò non avrebbe potuto nemmeno presenziare al suo funerale. Angelo si tolse il berretto della mimetica, tirò fuori dalla tasca 5000 lire e li mise nel copricapo, poi passò davanti a tutti i militari pronunciando queste parole: “ragazzi, io non posso credere che un figlio debba rinunciare a salutare per l’ultima volta la propria Madre” e tutti i soldati misero qualcosa nel cappello (naturalmente anch’io). Finito il giro della camerata il berretto era colmo di soldi; Angelo li consegnò alla recluta: “con questi il biglietto lo paghi sicuramente “ – il lunghissimo abbraccio che vi fu tra il ragazzo e Sinisi, contò più di mille parole.

Più conoscevo questo Grottagliese e più il rispetto e la stima aumentavano nei suoi confronti, eravamo diventati inseparabili, durante la libera uscita eravamo sempre assieme, mi chiamava sempre con un acronimo: FS (Ferrovie dello Stato, perché il nome del mio paese era Fiesse), anche lui nei miei confronti aveva una certa ammirazione soprattutto dopo l’episodio che adesso descrivo: in caserma era rimasto solo il camion più vecchio, (42 anni d’età) gli altri 3 mezzi pesanti erano già usciti per i loro servizi, sapendo che il vecchissimo mezzo aveva la batteria scarica, me lo feci accendere mediante trainamento da un’altro autista prima che uscisse con il suo autocarro; Angelo quella mattina, volle guidare lui quell’enorme pezzo d’antiquariato ma essendo un camionista alquanto scarso, partì senza togliere il freno a mano, facendo spegnere il camion; miseriaccia ladra, e adesso come facciamo ad acquistare i viveri necessari alla Caserma? Il maresciallo responsabile della cucina m’aveva consegnato una lunghissima lista di alimentari, la gigantesca cella frigorifera del distaccamento era quasi vuota. Angelo si sentiva in colpa, seduti sulle panchine che attorniavano il grandissimo piazzale dove le reclute imparavano a marciare, vi erano seduti una quindicina di soldati della 6^ compagnia, avevano appena terminato il turno di guardia, quando Sinisi chiese loro se potevano dare una spinta al camion, lo mandarono a quel paese, erano stanchi e non avevano voglia d’alzare il culo ed allora intervenni io: “Angelo, mettiti alla guida del cimelio, ingrana la quarta, togli il freno, io vado dietro e mi metto a spingere “ – “senti un po’ Giordano, sei rimbambito completamente? Come pensi di spingere un camion da solo?” – Dovetti urlare non poco perché andasse alla guida, dopodiché andai dietro al mezzo e cominciai a spingere come una bestia; i miei scarponi grattavano sul cemento ed io emettevo delle urla disumane: uuuaaahhhh; uno alla volta si alzarono tutti i militari seduti sulle panchine e spinsero assieme a me; dopo due minuti il camion era acceso; li ringraziai moltissimo stringendo a tutti la mano; Angelo scese dal pesante mezzo, mi guardava con gli occhi fuori dalla testa poi mi fa: “Bresa’, tu sei u grandissimu strunzu !” – ammettendo in qualche modo che avevo avuto una buona idea.

Potrei scrivere centinaia di pagine riguardo quel che abbiamo combinato durante l’anno militare, ma non voglio allungare troppo il racconto, butto giù le ultime righe scrivendo che di Angelo Sinisi ho sempre ammirato il suo grande coraggio, nonostante fosse un soldato semplice, non ha mai avuto timore di confrontarsi anche con gli alti ufficiali, quando c’era qualcosa che secondo lui andava fatto per migliorare la vita in Caserma, non esitava a discuterne anche con il Comandante del Distaccamento, questo suo indomito temperamento lo mise in cattiva luce con il Capitano responsabile della 5^ Compagnia (la nostra), un ufficiale arrogante convinto d’essere il padreterno; l’ultimo giorno di naja tutti noi del 7° scaglione 82 , eravamo schierati per ricevere il Congedo che il Capitano ci stava consegnando, quando fu di fronte ad Angelo gli disse: “Sinisi, sei stato un soldato talmente esemplare che ho deciso di prolungare la tua permanenza in Caserma almeno di una settimana, perciò oggi il Congedo non te lo do,” e lo guardò con un sadico ghigno di beffa, dimostrando appieno di essere un grandissimo stronzo.

Il mio amico fissò negli occhi l’ufficiale con sguardo fiero ed orgoglioso, ma quando il tronfio graduato se ne andò, Angelo mi abbracciò scoppiando a piangere, costretto a rimanere in Caserma una settimana in più; ci siamo giurati che nel corso della vita ci saremmo riincontrati, e nonostante ci separano circa 950 kilometri, ho intenzione di tener fede alla mia promessa. Uscii dal portone principale assieme a Bruno Arena, esattamente come avevo fatto un anno prima nell’entrarvi, ma mentre lui si diresse verso la stazione, io andai ad imbucare una lettera destinata a Marta, una bambina dagli occhi neri abitante a fianco la Caserma, una dolcissima sfortunata creatura (la mamma praticava un “mestiere” molto antico), con questa giovane fanciulla scambiavo qualche parola ogni giorno intanto che aspettavo la guardia di turno m’aprisse la porta carraia; la lettera era un modo per salutarla, lasciandole un mio piccolo ricordo. Poi mi diressi piano piano verso il treno che portava a casa, sicuramente con le idee più chiare di quand’ero partito, ma con tutta la calma del mondo, non avevo nessuna fretta di ricominciare ad alzarmi ogni giorno alle 03.45 per il resto della vita a venire, anche se in stalla ad aspettarmi vi erano delle gigantesche “Signore” dalle enormi mammelle non siliconate.
Giordano

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