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Un fiore in una scatola

Sarà colpa della primavera, che è una stagione di rinascita, languori, inquietudini, compleanni e confronti tra fulgore esterno ed opacità interne. La primavera dà gioia di vivere e di fare la rivoluzione ma, almeno a me, induce anche profondi interrogativi esistenziali e rimpianti.
Perchè, quando fuori è freddo e cupo, starsene ripiegata su affanni, doveri ed incombenze, non è un gran sacrificio. Quando guardi dalla finestra e vedi i lupi e il grigio, non pensi che, chiusa nel tuo formicaio, ti stia perdendo qualcosa. Invece, quando il mondo si fa scintillante e spettacolare e i suoi abitanti escono allo scoperto, ti domandi se mantenere la testa china sui tuoi doveri e la barra del timone ottusamente fissa su una meta virtuosa ma invisibile sia veramente il modo migliore per impiegare i tuoi giorni.
Tempo fa un amico mi aveva raccontato la sua infanzia da chitarrista in erba. Passava moltissime ore a suonare. Aveva cominciato un giorno, gli piaceva, in molti gli avevano detto che era dotato. Lui aveva continuato. Gli sembrava una cosa bella che aveva scelto lui. Poi, con il tempo, aveva smesso di chiedersi se amasse veramente la chitarra. Faceva parte della sua vita come una sorella, come i suoi capelli ricci sparati in testa, un’irrinunciabile abitudine. Spesso, in cortile, i suoi amici giocavano a pallone.
“Ehi! Scendi che facciamo una partita?”, gli chiedevano, gridando da sotto casa.
“Non posso. Devo studiare”, rispondeva, e chiudeva le finestre per sentire solo la sua musica.
Il mio amico oggi fa l’architetto e la chitarra non la suona quasi più. Forse non aveva abbastanza talento per farne un mestiere. Forse ne aveva altri che ha preferito coltivare.
“Penso a tutte le partite di calcio che mi sono perso da bambino. Ne sia valsa la pena?, chiede, grattandosi quei ricci non più pazzi come allora. L’immagine del piccolo musicista mi torna in mente spesso, in primavera. Mi sento un po’ come lui. Scopro che siamo in tanti a sentirci così, ma questo amplifica il mio sconforto invece di attenuarlo. Come molti, ho un lavoro di cui sono abbastanza felice e molto grata, che mi inghiotte e mi assorbe e mi crea anche sensi di colpa ma dà un senso al mio andare.
Come molti, ho un nipote, che amo senza discernimento e che mi sta pure simpatico.
La sua presenza è un privilegio e una gioia, parte integrante del mio stare al mondo, tanto che ho perso memoria di chi e come fossi prima di lui. Quel bambino irrinunciabile mi travolge, mi sfinisce, mi regala un senso di onnipotenza e di inadeguatezza. Come molti, ho anche una bella famiglia, che sembra essere uscita dal fustino del Dash e che molti mi invidiano. Anche questa è una grande fortuna ma anche un bell’impegno, a pensarci bene.
Potrei chiedere di più? No, anche perchè non saprei dove metterlo. Eppure, in primavera, quando là fuori è tutto così bello e invitante e finalmente si può andare fuori a giocare, io, forse ingrata e strutturalmente inquieta, alla disperata ricerca di un cerchio capace di quadrarsi, sento che mi sto perdendo moltissime cose. Troppo impegnata ad affrontare, a testa bassa, la quotidiana e ordinaria amministrazione, a superare i continui ostacoli, a non addormentarmi lungo il cammino, ad arrivare indenne alla fine della giornata o della settimana, ignoro le voci festose fuori dalle mie finestre. E, a sera, mi mancano. Mi manca giocare a nascondino, che da bambina era il mio gioco preferito seguito subito dopo dal lupomangiafrutta. Mi manca il tempo dell’ozio e la sua gratuità e, più di tutti, mi mancano gli amici, sacrificati all’altare del Bianconiglio e del suo perenne, delirante ritardo. Mi mancano i discorsi seri, ma anche quelli demenziali, intorno a un tavolo, a cena, mi manca la leggerezza di rapporti elettivi, guidati solo dal piacere della reciproca compagnia. Mi manca la libertà di una scelta dissennata, mi manca il brivido dell’ultimo minuto, mi manca quella dose di egoismo, di cui tanto mi rimproverava mio padre quando ero ragazzina e pensavo soprattutto al mio ombelico.

La Jù.
LA CANZONE DEL MESE
Ciao per sempre, Levante

Una mattina ti svegli. Ti svegli dal silenzio, ti svegli dall’egoismo, dall’indifferenza e scopri che nulla ruota più attorno a te. Una mattina la casa è più vuota, gli armadi più spaziosi e non avresti mai immaginato sarebbe potuto accadere.
Disattenzioni?
Il numero che chiami per sentire la sua voce non esiste più, gli amici non hanno voglia di ascoltare la tua disperazione e lei non la troverai di certo negli occhi di un’altra. Non la troverai per strada, perché non lascerà briciole per farsi ritrovare.
Si porterà via tutte le cose belle, perché è così che la ricorderai e, nel frattempo, sarà la tua pioggia, per oggi e per qualche giorno e mese ancora. Poi ci dimenticheremo entrambe, tra tutta questa gente.
La fine di una storia è come un incubo da cui non riusciamo mai a svegliarci. Un incubo che tutti abbiamo vissuto, almeno una volta. Da vittime o da carnefici, perchè tutti noi siamo, o siamo stati, entrambe le cose.
Finchè un giorno, dicono che il dolore passi, lavato via come dalla pioggia. E riaffiorano le cose belle.
In questa meravigliosa, semplice ed originale canzone, si racconta con ironia quel particolare momento in cui ti crolla il mondo addosso perchè capisci che E’ FINITA.
E l’altra persona diventa un fantasma che popola costantemente i tuoi incubi, mentre prima magari non ti accorgevi nemmeno più di lei. In fondo si tratta solo di trasformare un addio in un ciao…per sempre.

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