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Tu non mi capisci

“Tu non mi capisci”; “solo chi c’è passato può capire”… Tutti, prima o poi, abbiamo pronunciato queste frasi e ce le siamo sentite dire. “Tu sei diversa, non sai cosa vuol dire…”. Queste parole mi inchiodano nella mia “diversità”, mi buttano fuori dal dialogo su quell’esperienza e mi fanno pensare. Anche a quando io stessa ho detto (o pensato) cose simili.
L’esperienza del dolore, della fatica, dell’inquietudine esistenziale a volte è così forte che rischia di isolarci in una torre d’avorio: coccoliamo il nostro dolore, le nostre ferite, e lì stiamo. Non sottovaluto la sofferenza, ma vedo anche che lì, in quella chiusura, ci sono un po’ di presunzione e d’orgoglio. E soprattutto in quella torre d’avorio rischiamo di rimanere intrappolati.
Perché è vero che quando stiamo male cerchiamo il conforto di chi ci può capire, di chi è simile a noi. Ma spesso, proprio perché è simile, può non essere in grado di aiutarci, di mostrarci uno sguardo diverso. Il simile fa bene all’anima: ci fa sentire capiti, ci fa stare al caldo. E di tutto questo abbiamo assolutamente bisogno. Ma non basta.
Abbiamo bisogno anche di sguardi diversi dai nostri, di sguardi che vengano da altre esperienze, da altri percorsi esistenziali, da altre storie. Altri in grado di ascoltare, e che abbiano davvero desiderio di comprendere.
Abbiamo bisogno di sguardi diversi non per essere capiti, ma perché nello spiegare a qualcun altro -davvero disposto ad ascoltare- io porto il mio problema fuori da me. Dando parola per spiegare, lo chiarisco meglio anche a me e ne prendo distanza, allontano un po’ la mia identificazione con quel dolore, con quel problema. Il dialogo mi fa uscire dalla torre d’avorio. Tra simili ci si capisce e nel piacere della comprensione reciproca rischiamo di costruire mura più spesse per la nostra torre, mura che ci fanno allontanare dal calore dell’umanità varia. Stiamo lì, confortati e fermi.
Il dialogo è faticoso, ci chiede di uscire da noi stessi. Ci porta in luoghi meno familiari, meno confortevoli. Richiede umiltà, generosità, e anche (come mi ha detto oggi un amico) uno sguardo amorevole e non spietato su se stessi. Ma il beneficio che porta è impagabile e ne siamo entrambi arricchiti. Il dialogo ci fa uscire dalla torre d’avorio e ci fa sentire parte dell’umanità, parte integrata di un tutto. Allora tornano a fluire le energie. Lo stesso dolore diventa più sopportabile, fardello che acquista senso. Lo sguardo liberato si apre all’orizzonte, e lì, in quegli spazi più ampi, torniamo a respirare la vita.
Dorina

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