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SOVRAFFOLLAMENTO COVID-19 E RIEDUCAZIONE

Insieme ai miei colleghi nella Comunità Casa del Giovane portiamo avanti da molti anni oramai, un nuovo laboratorio istituito per ospitare persone imputate di reati minori, in messa alla prova o in lavoro socialmente utile, che i tribunali avendo ottenuto la nostra disponibilità, mandano presso le nostre strutture per far loro svolgere quanto stabilito in sentenza, una pena risarcitoria-riparativa e dunque non ininfluente/inconcludente. Sul carcere si continua a parlottare, a fare e disfare, come se l’omertà fosse meglio della legalità, infatti ha importanza soltanto non perdere consenso, non certamente l’equità di una giustizia giusta per davvero. Come è dato sapere la popolazione carceraria, attualmente (fino a ieri) s’aggira intorno alle sessantamila unità, suddivisa in tre parti quasi identiche tra detenuti stranieri, detenuti tossicodipendenti, detenuti autoctoni criminalità comune. Il restante dieci per cento è composto da detenuti organici, o un tempo facenti parte le grosse organizzazioni criminali, per lo più sottoposti al regime del 41 bis o in alta sicurezza-sorveglianza. Ebbene, siamo un paese che ogni volta viene strattonato politicamente da altri paesi, reagisce affermando che la nostra sovranità e autorevolezza ci aiuta sempre a non demordere, infatti siamo stati capaci di paralizzare le colonne di migranti in mare e terra, mettendoci d’accordo con paesi di dubbia democrazia e moralità, attraverso fiumi di danari e commesse. Abbiamo fermato l’inondazione inarrestabile di miserie umane, al prezzo miserabile di non vedere né sentire. Dunque se abbiamo nella nostra faretra sittanta autorevolezza e decisionismo, non vedo perché i tanti e troppi detenuti stranieri in carcere, e quindi non stiamo parlando di profughi tanto meno di rifugiati, né di uomini e donne e bambini in fuga dall’orrore della guerra, dalla tortura e dagli ammazzamenti, bensì di persone pregiudicate e reiteratamente incarcerate per reati contro il patrimonio, per spaccio, per violenze sulle persone. Perché non dovremmo usare quell’autorevolezza e capacità decisionale per rimandarli nel loro paese di origine a scontare le pene comminate. Abbiamo una ampia fetta di detenuti tossicodipendenti, per non parlare di quella larga parte di persone che potrebbero essere declinate tranquillamente borderline, peggio, dichiaratamente da doppia diagnosi. Sul nostro territorio da nord a sud ci sono molte comunità di servizio e terapeutiche che possono essere approntate a ricevere questi “malati” perché di persone malate si tratta, la galera non può certo assolvere al loro disagio sanitario, non solo e non tanto per smetter momentaneamente la dipendenza fisica, ma soprattutto per costruire una possibilità di rinascita dignitosa. Checché se ne dica o si tenti di far passare per buona, la dicitura del recupero e della rieducazione, rimane il fatto che il carcere non insegna né fa apprendere il valore del rispetto per sé stessi e per gli altri.
C’è un bacino di utenza penitenziaria che non ha come problema primario l’assoggettamento al crimine, alla dipendenza delle sostanze, bensì è soggetta a un vero e proprio disagio psichico. E siamo arrivati alla percentuale non di poco conto di popolazione autoctona, cosiddetta criminalità comune, quelli che risultano essere dati statistici alla mano, di bassa pericolosità sociale. Che però fanno così rumore da esser percepiti come i peggiori, infatti sono quelli che entrano nelle nostre case per rubare, mettendo le mani nelle nostre cose più intime. Mi viene da chiedere agli addetti ai lavori, tra il sovraffollamento, il covid-19 e una rieducazione perennemente tumefatta, perché non indirizzare in percorsi di pubblica utilità, tutti quei detenuti a non elevato indice di pericolosità, che invece popolano passivamente il carcere italiano, senza nulla imparare né apprendere l’importanza di una scelta di cambiamento effettiva, perché connotata da una revisione critica del proprio vissuto.
L’impressione è che cambiano cordata i partiti, nascono nuovi movimenti, ma le idee, gli ideali, sommandosi si ritraggono, è storia vecchia: tutto cambia per rimanere esattamente come è. Qualcuno potrebbe licenziare quanto fin qui detto, stabilendo che è una proposta esageratamente ambiziosa, a tal punto da rasentare l’utopia. Potrei tranquillamente obiettare che soltanto l’utopista è un illuso nella teoria e un violento nella pratica, mentre chi si s’accompagna all’utopia non confonde mai il vicolo cieco con la strada maestra.
In conclusione sarà bene per ognuno e per ciascuno comprendere che la libertà non è altro che responsabilità, di conseguenza la capacità di opporre scelte consone. Infatti la libertà non è fare tutto quello che voglio come pensa normalmente un adolescente, peggio, un adulto infantilizzato. Ecco che allora per chi si troverà a varcare un portone blindato del carcere, sarà davvero salutare che quando ritornerà in seno alla società, abbia raggiunto quella maturità, che lo porterà a pensare che forse la pena l’ha scontata, nonostante l’indicibilità di una sofferenza gratuita e non contemplata in alcun codice penale tanto meno dalla nostra Costituzione. Se il carcere saprà aiutare ad esser uomini migliori, non costringendo le persone a sentirsi cose, oggetti, numeri, avremo una città migliore, ma soprattutto avremo una società migliore.
Vincenzo Andraous

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