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SORRISI IN DIVISA E LACRIME SUL VISTO

«A Lampedusa ho imparato a odiare i termini: clandestino, sbarcato, straniero, immigrato, extracomunitario. In fondo, sono tutti aggettivi che si riferiscono a una persona. Quindi, un essere umano. Quindi perché non chiamarlo per quello che è? Chiamiamolo “persona”». La rivisitazione del lessico sarebbe da anima bella, sandali francescani , volontariato e idealismo. E invece le parole filtrano da una divisa, che ci s’immagina sempre corazzata, impermeabile a sentimenti e umori, il corollario di stoffa a pistole e connotati da sbirro. Maurizio Lorenzi, agente della questura di Bergamo, uso a obbedir scrivendo, questo disagio lo ha descritto nel suo ultimo libro («Racconti di strada», Ananke, p. 319, 16 euro). Nell’isola siciliana era stato spedito per fronteggiare gli sbarchi, magari con la faccia feroce che consigliava la politica dei respingimenti. Non c’è riuscito: «Scusate davvero, ma non potevo sapere che volto avesse un certo tipo di disperazione». Mandato a questa sorta di fronte, s’è sentito fuori luogo davanti a «un piccolo esercito di pace in cerca di speranza», ma s’è accorto di essere felice al cospetto del sopravvissuto Mohammed: «Felice di aver potuto parlargli e di aver ascoltato la sua storia, di essere stato testimone di un piccolo miracolo. Felice di aver scrutato i suoi occhi. Felice di aver intravisto una traccia del senso della vita». Alla fine a Bergamo è tornato con un vago senso di ingiustizia: «A Lampedusa – scrive – ho visto un mare diverso, che cambiava seguendo il punto di osservazione. Il mare dei turisti e quello dei disperati. Era sempre mare, ma la differenza era abissale». Fanno bene, queste parole, perché piovono dalla prima linea a spazzar via i pregiudizi; perché arrivano dopo aver guardato in faccia quelli che spesso sono numeri, problemi, quando va bene un fenomeno di portata storica; perché sono la dimostrazione che, dopo gli slogan e i dibattiti, questo strano Paese trova sempre la forza di capire e il coraggio di aiutare. Lorenzi veste la divisa da 18 anni e ha fatto di tutto: scorte, turni sulla Volante, ufficio immigrazione, rimpatri, ordine pubblico, polizia ferroviaria. Il suo curriculum ha sprazzi «rambeschi», che lui però è bravo a rileggere con gli occhiali dell’autoironia e della sensibilità. Non dev’essere facile in un ambiente marziale come quello di una questura, dove le due cose rischiano di essere interpretate come debolezza. Il pericolo, insomma, è quello di essere preso per i fondelli dai colleghi. «Ma devo dire – ribatte – che nel tempo la loro considerazione nei miei confronti è lievitata e i sorrisini di scetticismo dell’inizio sono gradualmente evaporati. La sensibilità penso sia un patrimonio di cui andrebbe riconosciuto apertamente il valore. Al contrario, la società attuale tende a etichettarla come roba da sfigati. Quanto all’ironia, credo rappresenti il miglior antidoto alla disperazione. Anche i miei colleghi ne fanno uso, soprattutto in quelle situazioni cruente ed emotivamente coinvolgenti (o magari sconvolgenti)». Ecco, se c’è un pregio in ciò che Lorenzi scrive (in prima persona), è quello del poliziotto che si vede da fuori non come un supereroe, ma come un uomo con le sue paure, le tenerezze, le ire, le frustrazioni. Nei suoi libri non c’è puzza di cordite, ma di pietas e grottesco. Sono racconti di gambe molli e spaesamento, di sonno arretrato e caffè alla macchinetta del corridoio! Tutti episodi vissuti, e nemmeno troppo romanzati. C’è il collega palestrato che fa vanto dei suoi bicipiti e poi sviene davanti al sangue, c’è la Lancia K blindata con la polizza scaduta da usare per una missione nella fiscalissima Svizzera, c’è un personaggio felliniano che sbuca tutte le notti dal nulla alla stessa ora per bruciare il semaforo rosso davanti alla questura di via Noli. E c’è la frustrazione di chi si vede addebitati i danni di una «Pantera» dopo un inseguimento o di chi a processo porta l’arrestato e poi, dopo le domande del giudice, esce dall’aula con «l’impressione di essere io dalla parte del torto». Poi, sì, anche la morte, ma non quella spettacolare e anestetizzata dei noir. La scena della ragazza stroncata da overdose che Lorenzi si trova davanti nei bagni della stazione Centrale di Milano è ovattata di pietà. «Restai lì per un attimo, immobile di fronte a lei. Scrutai la morte, padrona di un corpo inerme. Una nudità straziante, deturpata della femminilit à più intima di una donna travolta dalle circostanze della vita». Vittime innocenti, come Yara a cui è dedicata la lettera aperta (pubblicata anche da L’Eco) dell’agente Lorenzi impegnato nelle ricerche. O come la bambina della coppia che sta litigando in cortile alle tre di notte. La piccola è in disparte, ignorata da madre e compagno, anche quando arriva la pattuglia. «È spaesata e istintivamente si avvicina a me. Forse perché le sorrido, forse perché qualcuno si è ricordato che esiste anche lei». Mentre il collega dirime la lite, Lorenzi la fa salire sulla Volante, accende il riscaldamento perché non abbia freddo, la sta a sentire, intuisce che il patrigno forse abusa di lei. «Tu ne vieni a conoscenza. Lei l’ha vissuta sulla sua giovane e bianca pelle. A te passa. A lei no». Non si spara nelle pagine del poliziotto-scrittore. Ma ci sono certi pugni nello stomaco che bucano più dei proiettili. sito web: www.mauriziolorenzi.it Articolo de L’Eco di Bergamo, 13.06.12

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