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SCOPRIRSI CLANDESTINO PER CASO IN OREGON

A Justin Hong, adottato da piccolo da genitori americani, è capitato a un colloquio di lavoro.
Ce ne sono a migliaia, come lui: fuorilegge per una dimenticanza.
Che ai tempi di Trump diventa colpa grave.

All’età di trentadue anni, stanco del proprio monotono lavoro da commesso in un grande magazzino dell’Oregon, Justin Hong decise di fare il salto verso una vita più gratificante. Dopo il liceo e l’università, Justin aveva seguito corsi di informatica prima nel tempo libero e poi, in maniera più organizzata, studi online presso un college che offriva master nella sua materia.
Armato del diploma si presentò in un’azienda di Portland che fornisce servizi di sicurezza informatica e il colloquio andò benissimo. Fu soltanto al momento delle formalità per il contratto che la verità si rovesciò sulla testa di Justin Hong come quei secchi di acqua gelata, che fecero furore due estati or sono per beneficenza: tu, gli disse l’ufficio personale, non sei cittadino americano. Non sei neppure residente legale. Tu non esisti. Per trent’anni, da quando una coppia di americani lo aveva prelevato da un orfanatrofio a Seul quando aveva due anni e lo aveva portato con sé nell’Oregon, Justin Hong aveva dato per scontato che lui, come figlio legalmente adottato, fosse diventato americano quanto i nuovi genitori. I suoi gli avevano fatto avere il numero di Sicurezza sociale, l’equivalente del nostro codice fiscale. Aveva frequentato ogni ordine e grado di scuola, dall’asilo fino all’università. Aveva preso la patente di guida. Aveva pagato le tasse. Si era arruolato nell’Esercito, prestando servizio in Kuwait ed era stato congedato con onore. E mai nessuno, nelle scuole, nel Comune, nel grande magazzino che lo aveva regolarmente assunto e neppure al Pentagono che lo aveva messo in uniforme, si era mai preso la briga di verificare se quel ragazzo, poi quell’uomo che parlava senza alcun accento straniero non avendo mai appreso alcuna altra lingua che non fosse quella di genitori, amici, insegnanti, fosse americano.
Ma nemmeno il padre e la madre adottivi, degnissime persone oggi scomparse che credevano di avere compilato tutti i formulari e triplicato tutte le copie, si erano mai preoccupati di scoprire se l’adozione avrebbe automaticamente fatto di lui un cittadino Usa, come sarebbe stato nel caso di un figlio naturale.
Nella melmosa vaghezza delle mutevoli leggi sull’immigrazione, nella foresta amazzonica della burocrazia indifferente, la vita di Justin Hong era scivolata via nell’ignoranza. Fino alla diga di un’azienda scrupolosa che, impegnata nel mondo della sicurezza informatica, e attenta alle leggi – in teoria durissima con chi assume “clandestini”, gli aveva chiesto dove fosse nato – in Corea – e quando fosse stato naturalizzato cittadino Usa. Cioè mai. Sono 18mila soltanto i coreani d’origine da anni residenti negli Stati Uniti senza avere uno “status” legale, soltanto perché chi li adottò, negli anni in cui la Corea, ancora povera, era una fonte ricchissima di bambini, non aveva pensato che i suoi figli sarebbero rimasti “clandestini”.
L’associazione legale che li rappresenta sta spingendo per una sanatoria non solo di coreani, ma di iraniani, brasiliani, vietnamiti, cinesi, rumeni e altri adottati e mai divenuti formalmente cittadini per l’equivoco di legge, ha ricostruito i casi di persone che, per aver commesso piccoli reati, o per essere stati coinvolti in incidenti stradali, sono stati deportati nelle nazioni di origine. Una coreana, medico radiologo in un ospedale del Texas, oggi vive della carità di una famiglia di lontani parenti a Seul, dove fu prelevata quando aveva sei mesi, cercando di imparare una lingua che non ha mai parlato.
Un altro ex militare, convinto che il servizio nella US Army avrebbe certificato la cittadinanza della nazione per la quale ha combattuto, vive da clochard sotto i ponti di Seul, anche lui senza conoscere una parola di coreano. Justin, come altri 18 mila, come decine di migliaia di altri come lui, vive nel terrore di sentir bussare alla porta e di essere rispedito in una nazione che è teoricamente la sua patria e che non conosce. Trema al pensiero che il nuovo capo dello Stato mantenga l’impegno con i suoi elettori e deporti chiunque non abbia un pezzo di carta per certificare quello che lui è da trent’anni. Un cittadino, tanto americano quanto chi lo vorrebbe cacciare.

Eccomi.
Questa sera sono di nuovo qui per iniziare una nuova strada insieme, se vi va. La barca è imbastita, chi vuole salti dentro, gli altri ci guarderanno poi dall’altra riva.
Il prossimo mese accadrà una cosa, l’anno scorso di questi tempi nemmeno pensabile, bellissima e necessaria per traghettare me e chi avrà voglia di seguirmi, sulla riva verso cui sono diretta. Quando meno di un anno fa decisi di andare in questo posto desueto e abbandonato, lo feci perché cercavo disperatamente di proteggermi da un mondo che non mi piace più, un mondo che mi sembra sempre più insensato e nocivo, che ha smesso di credere negli esseri umani. Un mondo dissonante, ma a cui purtroppo non riesco a trovare alternativa. Così avevo cominciato a cercare le mie soluzioni nel silenzio, andando a scavare fino all’osso per trovare la verità in luoghi che mi sembrassero autentici.
Tutto quello che è successo dopo è stato frutto di questa ricerca estenuante.
Esigente ed attorcigliata su me stessa, una domenica d’Aprile ero finita in un posto che dopo dodici padiglioni non aveva ancora smesso di parlarmi. Il mio primo viaggio in un mondo parallelo, invisibile, eppure così vicino: quello della follia. Inconsapevolmente, quel giorno ho aperto un’emozione. Questo è il trucco: non pretendere di avere tutti i punti cardinali sott’occhio prima di partire per un viaggio. Lasciarsi la possibilità di dover improvvisare, di dover fare un’acrobazia su se stessi che razionalmente non avresti mai creduto di poter fare, per poterci cadere dentro in piedi come i gatti. Quando hai tutto sotto controllo nel peggiore dei casi può andare tutto esattamente come ti aspettavi ma quando lasci gli appigli puoi concederti lo stupore di sorprenderti. E’ stato un anno intenso, in cui la spensieratezza di qualche anno fa ha lasciato spazio alla solitudine quasi ossessiva.
Tra un mese tornerò in uno dei “colossi” degli ex ospedali psichiatrici d’Italia. Una finis terrae nascosta che i giornali di allora definivano “la cittadella dei matti”. Era tante altre cose Mombello, terra di cuori sfiniti, di occhi rotti, di poeti, di pittori, di segreti, di urla e di silenzi ma quelli erano anche gli anni del fascismo, della censura, della distorsione della realtà.
Dopo quasi un anno, un po’ di strada, molte parole e bellissime fotografie, tornerò a Mombello, scopo del viaggio: raccogliere memorie orali che daranno vita alla seconda edizione di
ERA MOMBELLO. La prima edizione di questo progetto è un ebook che il fotografo toscano Giacomo Doni ha realizzato e distribuisce gratuitamente sul sul sito (http://www.giacomodoni.com/era-mombello/).
Come in tante cose della mia vita, anche oggi non c’è una spiegazione, un perché questo sapiente, sensibile, preparato e minuzioso fotografo abbia scelto me. Ma sarei falsa se vi dicessi che non ho paura: sarò all’altezza di questo progetto? Mai come adesso una parola può valere più di tutto: CASA. Una Casa è sempre Casa e lo è per sempre. E Mombello è una delle mie Case, sempre e per sempre.
ERA MOMBELLO
è il nome di un progetto che per me è soprattutto un inaspettato e meraviglioso regalo di una persona che stimo tantissimo e che credevo irraggiungibile, un sogno che credevo impossibile da realizzare, un pezzo di storia di Alda Merini, un luogo che mi ha folgorato, un’anta scrostata sbattuta dal vento.
Un progetto “inedito” per iniziare un nuovo anno. Un frammento di strada condiviso che mi e ci porterà parecchio lontano. Un viaggio ogni tanto tremendo, spesso straordinario, che a volte mi sfianca, a volte mi lascia
senza fiato e che si chiama come un mondo bello che, da febbraio 2017, imparerà a vivere
ancora anche se da anni sopravvive ad occhi chiusi. Un GRAZIE sconfinato va a Giacomo, mio mentore, maestro ma soprattutto amico per avermi “spiato” e “studiato” leggendo sulla mia pagina Facebook tutti i miei racconti sui luoghi abbandonati con pazienza, devozione e discrezione e aver poi deciso di coinvolgermi nel prosieguo di questo incantevole ed ambizioso progetto. I momenti magici avvengono quando Luce, Passione, Punti di vista personali e Sogni si combinano in un’equazione che produce quello che possiamo definire
Condivisione. E’ tutto proprio come un anno fa in cui era ancora tutto da sbagliare e la cosa divertente è che nonostante tutti i solchi che ho accumulato da allora, è ancora tutto da iniziare. Perché non aspettarsi nulla è meraviglioso, solo così ci si fa canale e ci si lascia dolcemente passare attra…verso.
Se vi va, statemi accanto.
A presto, dunque, e a sempre

Vostra
Jù.

Jussin “Jù” Franchina. Abbandonologa & Narrastorie di luoghi desueti e abbandonati. Fabbricante di racconti e canzoni per sé e per altri. Odia i piccioni e la gente che urla. La potete seguire sulla sua pagina Facebook @IoLaJu.

 

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