Rimani sempre aggiornato! - Scarica l'App di New Entry!

Muse – Drones

1. Dead Inside
2. [Drill Sergeant]
3. Psycho
4. Mercy
5. Reapers
6. The Handler
7. [JFK]
8. Defector
9. Revolt
10. Aftermath
11. The Globalist
12. Drones

Formazione:
Matthew Bellamy – voce, chitarra, sintetizzatore, strumenti ad arco, Chris Wolstenholme – basso, cori
Dominic Howard – batteria

Recensire un album dei Muse è un compito decisamente arduo, in quanto questi tre ragazzacci britannici nel corso della loro carriera (ma persino all’interno dei singoli dischi) non si sono mai posti il problema di sperimentare nuovi generi, nuovi sound, pur mantenendo il loro stile più che riconoscibile; dall’esordio di Showbiz (2000), in cui mostravano al pubblico una versione più distorta dei Radiohead fino ad arrivare al costante avvicinamento a sonorità più pop, culminato da The Resistance (2009) e soprattutto dagli esperimenti dubstep di alcune tracce del loro ultimo lavoro The 2nd Law (2012). Ma quindi, qual è il giusto approccio a Drones, ultimo parto in casa Bellamy & co.?
I Muse oggi sono una delle band più controverse del panorama musicale e per il nuovo album hanno dovuto scegliere tra lo scontentare i fan più giovani e il riabbracciare i fan della prima ora: la verità sta nel mezzo, come leggerete più avanti.
Il concept dietro a quest’ultima opera del trio è il progressivo aumento delle macchine (rappresentate nel contesto dai droni) e la conseguente alienazione degli umani e la loro sottomissione ad esse. Il lavoro ci viene presentato da Dead Inside, con una linea di basso rubata a Radio GaGa e in generale un’attitudine da Queen anni ’80 che riecheggerà sovente anche nei brani successivi. Partenza tutt’altro che positiva per il settimo lavoro della band, che paga forse le influenze delle ultime due uscite. Ma dopo un breve intermezzo ecco che si trovano i Muse che ci si aspettava in questo Drones: riff granitico, ritornello efficace, uno dei pezzi più duri della carriera della band. L’unico neo è la seconda parte della canzone, decisamente ripetitiva ed evitabile. Mercy invece è una ripresa di Starlight, o perlomeno la ricorda che è una meraviglia. Il pezzo è condito da una strofa in pieno stile Muse con una melodia delle più classiche al piano e un ritornello che si apre in un coro che urla il titolo del pezzo e che delude un po’ dopo l’ottimo sviluppo della prima parte, ma tutto sommato è uno dei migliori capitoli del disco.
Le successive Reapers e The Handler sono due ottimi pezzi; la prima comprende dei ben dosati inserti di elettronica e riff che sfiorano il metal ma paga la tendenza al prolisso che pervade tutto l’album, la seconda ha una linea di batteria che sembra richiamare alla parentesi simil-dubstep del trio, ma è indubbiamente suonata da Dominic Howard, e si
contraddistingue per l’intermezzo tirato in pieno stile Muse, risultando il miglior pezzo del lotto. Dopo un campionamento di John Fitzgerald Kennedy ecco un classico dei Queen reinterpretato dalla band di Bellamy. Naturalmente non sto parlando di cover, ma di un sound totalmente debitore al quartetto del compianto Freddie Mercury (che, per quanto il buon Matthew si sforzi, resta inarrivabile). Il pezzo scorre via senza alcun mordente, in modo molto piatto, ma non ci si può lamentare visto che questo sarà l’ultimo pezzo decente presente in Drones. Revolt e Aftermath infatti sono due tracce completamente omissibili: la prima propina a chi ascolta un pop rock degno dei peggiori The Fray, Aftermath invece è una ballad che sa di retrò e che, non a caso, risulta fuori contesto e pure noiosa.
La suite di The Globalist ha di buono solo il movimento centrale, molto tirato e anche con sfumature orchestrali, preceduto da un introduzione morriconiana e una successiva ballata malinconica trainata dalla voce inconfondibile di Bellamy. Dopo il lungo assolo si torna ad ammirare ciò che fu United States of Eurasia in The Resistance, riproposto con
poche variazioni sul tema negli ultimi minuti di questo brano, con un movimento basato sul piano-voce il quale poi sfocia in una chiusura che dovrebbe esprimere il triste finale del concept, senza riuscire nell’intento. Il difetto principale? I Muse non hanno mai centrato il punto in nessuna delle loro suite, questa non cambia di una virgola tale tendenza. In chiusura si ha la titletrack, insieme di voci (tutte di Bellamy) che intonano un canto di chiesa ispirato al Santo di Giovanni Pierluigi da Palestrina, con un’atmosfera tale che se l’ascoltatore chiude gli occhi sarà invaso da un intenso profumo di incenso e sarà liberato dal peccato originale. E poi si renderà conto di quanto sia pacchiana quest’interpretazione. Cosa dire dunque in conclusione dell’ascolto di questo lavoro? Immagino i Muse come una realtà musicale dalla doppia faccia: da un lato ci sono i Muse più umani, quelli di Psycho, Mercy o The Handler, pezzi anche abbastanza grezzi, se si pensa al passato del gruppo, mentre dall’altro troviamo i Muse anaffettivi, apatici e dediti solo a fare musica per confermare il loro successo, quasi delle macchine, dei droni –appunto- che sfornano canzoni senza alcuna emozione, come ad esempio la pretenziosa The Globalist o l’accoppiata Revolt-Aftermath. Lo dico con rammarico, questa per il trio inglese è un’occasione sprecata per tornare a fare del vero rock, o meglio sfruttata solo per metà e poi abbandonata per ricercare la conferma del successo commerciale che fino ad ora non aveva comunque intaccato la qualità compositiva. L’album in sostanza non è da bocciare, assolutamente, ma è troppo netta la differenza tra la prima parte e la seconda, creando anche un senso di disomogeneità al termine dell’esperienza di ascolto. Arrivederci al prossimo capitolo, sperando di vedere dei Muse meno macchinosi e più musicisti. Voto 6,5.
Carlo Chiesa

Condividi