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MEZZ’ARIA

Capìtano delle giornate dove tutto gira storto e si vorrebbe essere da un’altra parte, è in quei momenti che ripenso all’ultimo casottino di legno costruito assieme al mio amico Massimo.
Avevamo 11 anni e notammo nell’angolo del mio portico impilate moltissime assi, erano le vecchie assi della mangiatoia delle vacche, sostituite perché cominciavano ad essere troppo logore per svolgere al meglio il loro dovere. Quando le vedemmo esclamammo: “ma qui c’è tanto materiale da costruire una casa”; bisognava trovare il sito adatto dove collocarla, pensa e ripensa mi venne in mente che una cinquantina di metri dietro la cascina scorreva un fiumiciattolo le cui rive erano adornate da alti pioppi ed alla fine, proprio dove curvava l’acqua, c’erano due enormi gelsi vicini fra di loro. Andammo a visitare il posto, era proprio l’ideale dove costruire la casetta, nell’osservare le due larghe piante mi venne un’idea geniale: “Massimo, perché non costruiamo il casottino là in alto, tra un gelso e l’altro sospeso a due metri da terra?” – la mia idea fu accolta con un urlo di approvazione. Con un metro a nastro, prendemmo tutte le misure, poi tornati in cascina, su un block notes disegnammo una specie di progetto, qui ci fu un piccolo diverbio con il mio amico, lui insisteva nel fare l’ingresso sul gelso di destra, io invece volevo entrare su quello di sinistra, così dopo una “pacifica” scazzottata, visto che in piedi ero rimasto io, entrammo sul gelso di sinistra. So che può sembrare diseducativo quanto scrivo, ma io ed il mio amico Massimo risolvevamo le nostre questioni più intricate prendendoci a sberloni. Posso però affermare con certezza che l’azzuffata per la casetta di legno, fu l’ultima, in seguito, probabilmente nel diventare più grandicelli, mettemmo più sale in zucca e non ci toccammo mai più con un dito.
In base al progetto stabilito, segnammo tutte le assi con un gesso per poi tagliarle con precisione con un seghetto (a dir la verità, usammo di nascosto la motosega, ma non vorrei che mio padre, adesso che lo viene a sapere, mi lanci un fulmine dal paradiso). Finalmente, tagliate tutte le assi alla giusta misura, le trasportammo ai due gelsi ed iniziammo la costruzione; una faticaccia, un tribolare indescrivibile, accentuata dal fatto che eravamo a due metri da terra. Martella, inchioda, lega, dopo qualche giorno finimmmo la nostra casetta sugli alberi, un’opera che io non esito a definire di alta ingegneria edile; si entrava sul gelso di sinistra, come stabilito, salendo grazie ad una corda a cui avevamo praticato dei nodi per evitare che le mani scivolassero, le assi collegavano i due grandi gelsi, le pareti laterali alte un metro e quaranta, avevano due finestrelle laterali che permettevano di vedere fuori stando anche seduti, le fronde dei due grandi alberi, facevano da tetto. Grazie agli alti pioppi piantati lungo la riva opposta che ombreggiavano i nostri gelsi ed al fosso che scorreva vicino, il clima era ideale, una sorta di aria condizionata naturale. Arredammo il casottino con due vecchie sedie ed un tavolino che avevamo trovato nel granaio della mia cascina. Stando là sopra sospesi a 2 metri da terra, sentivamo un senso di pace indescrivibile, sembrava d’esser sospesi su una nuvola.
Nel raggio di 500 metri quadri c’erano lungo le rive dei campi, alberi di ciliege, albicocche, pesche, un piccolo campo di angurie e meloni e qualche filare di uva nera americana e bianca moscato. Mano a mano che la frutta maturava (in base alla stagionalità), ne raccoglievamo un pochino ed aiutati da un cestino di vimini con una cordicella, la issavamo nella nostra casetta per fare merenda; era come passare mezz’oretta in Paradiso, lontano da tutto e tutti. Quell’anno avevamo terminato la quinta elementare, io ed il mio amico Massimo ci scambiavamo opinioni su come sarebbero state le medie, era un bel cambiamento che un po’ ci preoccupava, mi ricordo che il mio amico disse: “tra poco finiamo le vacanze estive ed ho ancora più della metà di compiti da fare, tu come sei messo?. -“lo sai bene che i compiti delle vacanze non li faccio mai, è una forma di protesta,” – “ti ricordi però in quarta elementare che strigliata ti piantò il maestro Paolo?” – “mi ricordo benissimo, e comunque le strigliate fanno bene al pelo, lo rendono più lucido” – “ Giordano, tu sei e sarai sempre un testone!”. Più passava il tempo e meno tempo trascorrevamo nella nostra casetta di legno, quando cominciai la prima media, mio padre mi affidò l’incarico di occuparmi dei vitelli: allattarli, pulirli e lavare i secchi della mungitrice. Anche Massimo cominciò a dare una mano a suo padre: il nostro casottino diventò uno spazio dove rifugiarsi quando problemi e delusioni cominciavano ad essere più grandi di noi. Ricordo quando mi morì la prima vitellina, disidratata dalla diarrea, non mi davo pace, era stata affidata a me; avevo fatto tutto il possibile per salvarla?
L’avevo vista esalare il suo ultimo respiro, emettere l’ultimo gemito prima di rimanere immobile, è stato terribile, sono corso nel casottino a sfogarmi, piangere ed urlare; quando sono tornato in cascina, mio padre mi disse: “Giordano, il nostro non è un mestiere facile, ma se la perdita della vitellina ti ha così sconvolto, vuol dire che sei un bravo allevatore.”
L’ultima volta che io e Massimo siamo saliti assieme nella nostra casa sugli alberi è stato verso la fine della terza media, a parlare del nostro futuro, dei nostri sogni; ci siamo chiesti: chi vogliamo diventare? Massimo non aveva dubbi: “basta studiare, io inizio subito a lavorare, almeno comincerò a mettere da parte qualche soldo” – io invece diventerò un perito elettronico” gli risposi, ma dopo il biennio alle superiori mi ritirai ed iniziai a lavorare a tempo pieno nella nostra azienda agricola. Non ero per nulla convinto di voler fare il contadino, continuavo a pensare che dopo il militare avrei preso una decisione definitiva, invece fu proprio il servizio militare a convincermi a proseguire in agricoltura; tutti i ragazzi che ho conosciuto durante la leva, mi dicevano più o meno la stessa cosa: “tu non hai idea della fortuna che hai a lavorare nella tua azienda, all’aperto, a contatto con la natura, io invece sono sotto padrone, devo sempre obbedire, chiuso tutto il giorno in fabbrica; Giordano credimi, io farei carte false per essere al tuo posto”.
E così dopo il congedo, ripresi gli studi serali in una scuola agraria professionale, perché la teoria e la pratica devono camminare di pari passo, e dedicai anima e corpo alla nostra azienda.
Cavolo, sono passati quasi cinquant’anni da quando io e Massimo costruimmo la nostra reggia sugli alberi, il casottino resistette per 4 o 5 anni, ma poi le assi esposte alle intemperie marcirono. Quante volte nel corso della vita quando i problemi diventavano più grandi delle soluzioni, avrei voluto rifugiarmi nel nostro spazio magico, lasciare le difficoltà per terra, salire nella casetta a mezz’aria, e con la testa libera da turbamenti, guadare i problemi dall’alto in cerca di una soluzione.
Giordano

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