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L’ULTIMO REGALO

Ormai ci conoscevamo da 4 anni, sapevamo di noi due quel che era necessario e niente altro; tu mi leggevi dentro ed io pure ma ti vedevo anche fuori, una fatina del nord e come ogni fata di quei grandi boschi apparivi timida, le tue emozioni si esaltavano nel tuo rossore sulle gote, nel tuo stupore espresso dai grandi occhi verdi. Aspettai tutto il tempo che volevi per sentire battere il tuo cuore. Con quelle camicette e jeans intonati a richiamo sulle cuciture rosse o azzurre, mai nulla lasciato al caso, dagli orecchini in tinta con la borsetta a tracolla e i capelli biondi, sciolti o raccolti che ti cadevano sulla schiena. Bianca come una nevicata, ti dicevo che non vedevo il giorno in cui mi saresti “fioccata” addosso ma io mi divertivo a confonderti con parole che non conoscevi, nonostante il tuo italiano cristallino.

Ma ora sapevamo entrambi che le nostre strade si stavano dividendo; mi spiaceva certo, e a te anche ma volevamo lasciarci senza pensare e incorniciando tutto ciò che di bello, davvero bello, c’era stato fra noi… Ci saremmo visti per una volta ancora il giorno seguente e sapevamo che saremmo volati lontano in direzioni opposte, allora ti chiesi di venire tu da me e di apparire in modo completamente diverso da come ti avevo conosciuta. Ma cosa intendi dicesti, cosa dovrei fare?
Devi sorprendermi, devi prendere il treno, venire a casa mia, non suonare il campanello, aprire la porta, attraversare il corridoio senza dire una parola ed entrare in camera mia. Io sarò solo, sdraiato sul mio letto con la porta aperta; non devi semplicemente entrare, devi stupirmi, sorprendermi, in tutti i sensi; è il nostro ultimo incontro e vorrei un addio memorabile per noi. Se è vero che provieni da una città dove nascono le fiabe, allora dimostramelo, non so come, sei tu la fata…

Mi guardavi perplessa ma il giorno dopo, verso le tre, sentii il rumore metallico del cancellino, io stavo sul letto appoggiato al cuscino, indossavo anche un giaccone perché faceva davvero freddo; sentii la porta di casa aprirsi delicatamente, i tuoi passi lungo il corridoio e poi ti sei affacciata alla mia stanza e sei entrata.
Un giubbetto bianco leggero, i capelli sciolti tra il biondo e il rosso, poi, senza una parola hai tolto il giacchetto e sei apparsa in un abitino leggerissimo, color carta da zucchero, la tua inseparabile borsetta, le scarpette nere, eri alta come il soffitto, non sembravi nemmeno umana tanto eri bella… Avevi stravolto qualsiasi mia aspettativa e in quel preciso istante, ancor prima di riconnettermi alla realtà, capii che eri davvero una fata. L’avevo intuito, percepito nel tempo ma ora lo vedevo di fronte ai miei occhi; eri una fata dei grandi boschi azzurri.
Enrico Savoldi

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