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Le cose perdute

L’anno della maturità, una città di provincia, una classe in gita. C’è un ragazzo che si chiama
Domenico, è figlio unico, ha una barbetta alternativa, occhi intelligenti, brillanti. Va con la sua
classe a visitare l’Expo, a Milano: dormono in un hotel quattro stelle vicino alla Fiera.
Dormono, si fa per dire: la sera vanno a mangiare una pizza coi professori e poi la notte bevono, stanno svegli fino all’alba, girano per i corridoi, da una stanza all’altra. Capita, nelle gite. Prima delle otto del mattino si ritrovano tutti nella sala colazioni, con gli insegnanti. Mentre mangiano entrano quattro poliziotti e chiedono del responsabile della gita: il professore di Disegno esce con gli agenti, accompagnato dall’insegnante di Educazione fisica. Gli mostrano una foto sul cellulare: è il ritratto di un cadavere. Il professore si sente male: uno dei ragazzi è morto. Lo hanno trovato nel cortile, è caduto da una finestra del quinto piano. I poliziotti pensano si sia ucciso, ma presto capiscono che non può essere andata così.
Quel che è successo a Domenico, nel momento in cui scrivo, non è ancora stato scoperto, quel che è certo è che oltre alla sua molte vite quella notte sono state travolte. Quella dei suoi genitori, che perdono tragicamente e insensatamente l’unico figlio, quella dei compagni che vivranno con chissà quali sensi di colpa per quello che hanno o non hanno fatto, quella degli insegnanti che avevano la responsabilità della classe.

Quel che provano i genitori io non posso nemmeno immaginarlo, quel che stanno vivendo i suoi compagni, e anche i professori, è materiale per un dramma: responsabilità, colpa, tragedia, dolore. Mancanza di senso. Ci vorrà molto, molto tempo per superare quel che è accaduto, ma i ragazzi e i professori probabilmente ce la faranno. Sono giovani, sono adulti, hanno le loro vite: le tragedie accadono e la vita continua, lasciando chissà quali segni.
Non per Domenico e i suoi genitori. La madre di Domenico, insegnante d’Italiano in un altro istituto di Padova, scrive su Facebook: ”Ho affidato il mio unico figlio, sano e in buona salute,
all’Istituzione Scolastica. L’ho affidato per un’uscita con pernottamento. Mi verrà consegnato,
cadavere, tra alcuni giorni…
L’hanno lasciato morire, solo e nell’indifferenza generale. Non ci sono lacrime né parole che possano esprimere il vuoto, la privazione, l’assurdità di tutto, il silenzio innaturale, il dolore. Grazie a tutti voi. Se fosse rimasto a casa, sarebbe vivo. Avremmo chiamato l’ambulanza…Io attendo di poter raccogliere dei pietosi resti. E’ meglio che non trovi parole”. Frasi terribili, che non sopportano alcun commento.
Il padre ha parlato al funerale, ha cercato parole meno dure, ha accennato a un futuro possibile, almeno per la memoria del figlio, nella ricerca della verità. “Tutti abbiamo un debito di verità e coscienza nei confronti di Domenico. Era il mio amico, il mio eroe. Mi prendeva in giro perchè ero troppo vecchio, ma lui ci ha lasciato troppo giovane.
Per raccontarlo mi ci vorrebbero diciannove anni, non so se avrò la forza di andare avanti. Ha lasciato qualcosa di importante che noi dobbiamo portare avanti”.

Il dramma dei genitori è tale che non possiamo che piangere con loro. Lo sgomento e l’angoscia dei compagni e dei professori di Domenico possiamo immaginarli. Più difficile solidarizzare con la dirigente del suo Liceo che parla di un “malore mal gestito”, segnala “uno slavo in corridoio”, parla di “studenti figli di professionisti” come se la tragedia, la colpa, il caso e l’inferno proteggessero certe classi sociali più di altre. Ma non è giusto giudicarla né linciarla. E’ successa una tragedia e speriamo che nessuno debba portarne la colpa, che nessuno ne abbia colpa, se non il caso, il più feroce degli assassini.
Ci vorrà molto, molto tempo, per tutti.
In ogni adolescenza c’è qualcosa di sfuggente e di nascosto, le porte delle camere si chiudono, le bocche si cuciono, il discorso con gli adulti sospeso. Ogni adolescente è una persona momentaneamente scomparsa. Riapparirà, ma non si sa quando. Domenico, però, non tornerà. E la sua morte rappresenta il terribile discrimine tra il voler essere adulti e il non poterlo mai più esserlo. I compagni di classe forse capiscono, o intuiscono, che la loro adolescenza è stata messa alle strette, forse interrotta per sempre. Nel più brutale dei modi, la vita adulta ha bussato alle loro porte chiuse reclamando da loro, il più ineludibile segno della condizione adulta: sentirsi responsabili di
qualcuno. Si capisce, essere scaraventati da una morte nel bel mezzo della vita non è facile. Ma crescere non è una facoltà.
E’ un obbligo.
E’ impossibile, adesso, restare “giovani”.
J.

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