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L’equilibrista

Come fanno tutti coloro che restano impassibili, che si lasciano scivolare le cose addosso, che non si commuovono? Come fanno a mettere la realtà a distanza, a sublimarla, ad andare avanti sempre e comunque? “Sei troppo sensibile. Lo sei sempre stata. Fin da piccola. Quando guardavi un film piangevi sempre. Ti ricordi?”
Talvolta mio fratello è brusco. E allora dopo un po’ smettiamo di parlare. Ma è il suo modo di volermi bene. Prendermi in giro e scuotermi un po’ quando è convinto che esagero. Il problema però non è tanto che piangessi davanti a un film quando ero piccola.
Il problema è che continuo a piangere ancora oggi. Anche quando nessun altro piange. Come l’altra sera a casa mia. Quando ho visto per la seconda volta le ultime sequenze del film di Clint Eastwood, Milion Dollar Baby.
Volevo spiegare ancora una volta a me stessa che l’amore consiste nell’accettare l’altra persona e le sue scelte, anche quando non siamo d’accordo, anche quando farlo sembra impossibile. Perchè l’amore non è una forma di “possesso”, ma un’accettazione profonda di colui o colei che amiamo e dei suoi desideri. Come Frankie, che non vuole che Maggie muoia, che non vuole perderla, che la ama più di chiunque altro al mondo. E che proprio perchè la ama, alla fine, accetta di lasciarla partire. “Amore mio, sangue del mio sangue”, glielo sussurra all’orecchio, mentre stacca il respiratore e le somministra l’adrenalina…
Per fortuna ero a casa da sola quando le lacrime hanno cominciato a colare. Asciugate in fretta perchè adesso sono grande. Ma i ragazzi di oggi, come fanno a non piangere?
“Li educano così. Piangere è un segno di debolezza” mi dice una mia ex collega che adesso insegna alle superiori. E che, a differenza di mio fratello, cerca quasi sempre di assecondarmi. “Per riuscire nella vita si deve essere forti e impassibili. Si perde una persona cara? E allora? Si elabora il lutto e si tira avanti.
Si cerca un’altra persona. Si rimpiazza chi non c’è più. E tutto ricomincia come prima”.
Ma le persone non sono mica dei giocattoli. Come si fa ad uscire indenni da una relazione che finisce? In realtà, tutto ciò che accade ci tocca. Attraverso il filtro dell’affettività.
Una rete sottile di emozioni e di passioni che rinviano alla parte più profonda del nostro essere. Affetti ed emozioni che parlano sempre in prima persona. Anche quando si esprimono all’interno di una trama di significati che sfugge al nostro controllo. Certo, la nostra affettività si scontra sempre con la realtà del mondo. Con la materialità del nostro corpo. Con la resistenza che gli altri oppongono al nostro desiderio.
Forse è per questo che ci “adattiamo”, ci “sottomettiamo”, ci “cancelliamo”. Per non perdere l’Altro. Per trattenerlo accanto a noi. Anche solo per qualche ora, qualche istante…ancora un secondo per favore…non andartene ti prego…
Ma l’affetto è un moto dell’anima che non si può mai del tutto controllare. Un movimento spontaneo. Che ci sfugge. Che ci lega a qualcuno o a qualcosa indipendentemente da noi.
La tenerezza, l’attaccamento, la devozione, l’amore, la rabbia, l’invidia, la gelosia…tutto rinvia a un’affettività senza parole, anche quando ci illudiamo di aver trovato le parole giuste, come se il mondo dipendesse da quelle poche sillabe cui ci attacchiamo disperatamente.
L’affetto si vive, si sente. Più di quanto non si pensi e non si dica. Anche quando ci sforziamo di tradurre in parole quello che proviamo. Anche quando la parola cerca di contenere i nostri affetti per evitare che sfuggano.
Anche quando il discorso si sforza di “trattenere” l’istante per fornirgli la traccia di un’iscrizione. Perchè le parole e gli affetti si incrociano costantemente: parole che dicono gli affetti, affetti che fanno le parole. Come diceva già Nietzsche, che queste cose le capiva, certamente meglio di un Cartesio o di un Kant che si illudevano che l’anima avesse la forza e la capacità di vincere le emozioni e sottomettere il corpo. Perchè dietro ogni pensiero si nasconde un affetto. E i nostri pensieri sono sempre i segni di un gioco più grande di noi. Come il nostro essere. E le mutevoli tonalità affettive del nostro inconscio il cui significato profondo continua a sfuggirci. Sempre e comunque. Anche se ce la mettiamo tutta per cercare di interpretarle.
E’ per questo che lo stato di servitù nel quale ci ritroviamo tante volte nel corso della vita non è mai del tutto legato alla dipendenza emotiva. Al contrario. La servitù è il prezzo che si paga quando ci si illude di poter controllare i nostri sentimenti. Quando si pensa che la ragione possa essere sovrana. Quando si cerca la saggezza estendendo il dominio del pensiero chiaro e distinto.  Mentre l’unica cosa che conta veramente nella vita è la notte che si spalanca quando si guarda una donna negli occhi…quando si sprofonda nell’immensità del suo sguardo…quando ci si perde negli abissi della sua malinconia…
Ormai lo so. Quando si parla con qualcuno ci sono sempre due registri di dialogo che si incrociano. Quello verbale, apparente, liscio. Che talvolta parla senza dire nulla. Che spesso maschera. E poi quello sotterraneo e invisibile. Fatto di sguardi e movimenti quasi impercettibili. Che dice sempre tutto senza parlare. E che crea l’intesa, la tenerezza, la complicità.
Perchè sono sempre le emozioni e gli affetti che danno un senso alla nostra esistenza. Anche se, quando ci affacciamo sul mondo, facciamo di tutto per costruirci un muro di razionalità.
Come una colonna vertebrale che ci tiene su. Per evitare di precipitare nell’abisso che si spalanca davanti ai nostri piedi quando ci innamoriamo. Ma è solo quando si precipita che si comincia a vivere veramente. Perchè si impara a essere veramente presenti. Accanto a quello che succede. Accanto alle sue parole. Accanto ai nostri desideri.
Jù.
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