Rimani sempre aggiornato! - Scarica l'App di New Entry!

KAMIKAZE: ULTIMA MISSIONE

Ottobre 1944, trentaquattro portaerei americane si stanno dirigendo con le caldaie sotto pressione verso l’isola di leyte. E’ l’inizio della riconquista delle Filipine, per il Giappone è l’inizio della sconfitta. Gli aerei giapponesi sono pochi. Quelli americani che si alzano a grappoli dai ponti delle portaerei sono numerosi come le mosche d’estate. Sotto i loro bombardamenti massicci non c’è resistenza costiera, non c’è eroismo di fanteria che possa bastare. C’è un’unica speranza per i giapponesi: distruggere i ponti elevatori delle portaerei. Per raggiungere questo obiettivo c’è solo un mezzo: stipare d’esplosivo i loro piccoli e leggeri apparecchi e farli precipitare insieme coi piloti, sui ponti delle navi americane. L’ammiraglio Ohnishi, alla radio nazionale, lancia l’operazione SHO (vittoria), invita la gioventù giapponese ad immolarsi per la patria. Sul Giappone passa un’ondata di “Kamikaze” (vento di Dio). Migliaia e migliaia di ragazzi premono alle porte dei comanfi per avere l’onore di guidare gli aerei sucidi che salveranno la patria. Tra essi c’è Matsuo Takaiuki, di diciassette anni. Divisi in gruppi di 150, iniziano una preparazione durissima. Sono allenati a guidare gli aerei in voli lunghissimi senza lasciarsi cogliere dal sonno. Allo stremo delle forze devono picchiare improvvisamente su bersagli prestabiliti senza scartare d’un metro l’obiettivo. Devono saper dirigere con un motore in avaria. E’ un addestramento che nello spazio d’un mese li porta ad avere muscoli e nervi saldissimi, controllo perfetto dell’aereo e colpo d’occhio d’una sicurezza eccezionale. Le ultime ore che precedono la partenza dei piloti suicidi sono un rito religioso. La sera prima della missione, di fronte a tutti vengono chiamati per nome. Cenano con i comandanti, poi si ritirano a scrivere il loro testamento. Con piccole forbici d’oro di tagliano una ciocca di capelli, la collocano in una busta insieme ad un foglio che contiene le ultime volontà. All’alba il loro capo viene cinto dall’”Hinomaru”, la benda sacra che porta, rossa come il sangue, la bandiera nipponica. Al loro fianco viene appesa la spada dei Samurai, gli antichi leggendari eroi della patria. Sono splendenti di gioia: davanti ai loro occhi brilla la certezza di salire entro poche ore alla luce e alla gloria del Gunshin, gli dèe della guerra che li attendono nel paradiso dei Samurai. Il loro nome verrà scolpito nel tempio di Jashukuni, il tempio degli eroi, e davanti ad esso curveranno la fronte in adorazione le future generazioni giapponesi. Matsuo Takaiuki, mentre attendeva con impazienza la sua ora, vide partire così 2000 compagni. Nessuno di essi si salvò. Per i marinai americani, nell’ottobre del 1944, cominciò il terrore dei kamikaze. Leggeri come libellule, sfiorando le onde per non farsi scorgere dai caccia, i piccoli aerei stipati di esplosivo si levavano d’improvviso con una brusca impennata appena in vista della flotta statunitense. Le batterie navali cominciavano un violento tiro di sbarramento, puntando e sparando con rabbiosa velocità. Ma a gruppi di due o tre, i kamikaze iniziavano inesorabili la picchiata. E sui ponti elevatori delle portaerei, sulle ciminiere delle corazzate, le fiammate bianche dell’esplosione dilaniavano le navi americane e i piloti nipponici. Furono così numerosi questi voli pazzeschi nei primi mesi del 1045, che presto il Giappone si ritrovò senza aerei. I giovanissimi kamikaze dovettero aspettare che fabbriche improvvisate iniziassero la costruzione affrettata di aerei fatti in legno e di carta, utilizzabili solo per un volo: quello che doveva portarli al suicidio. Ma sotto l’imperversare del “vento di Dio”, anche gli americani strinsero i tempi. Nel deserto del Nevada, gli scienziati atomici furono esortati ad accelerare la costruzione della “bomba del futuro”, e presto le rovine fumanti di Hiroshima e di Nagasaki, travolte dall’atomica, segnarono la fine tristissima della guerra del Pacifico. Proprio mentre gli ufficiali si avvicinavano a Mitsuo Takaiuki per bendargli la fronte con l’Hinomaru, la voce dell’imperatore giapponese rotta dai singhiozzi annunciò che la guerra era perduta. Takaiuki ritornò alla sua casa, tra le rovine della sua città. Solo sua madre Jeiko era ad attenderlo. Insieme pregarono gli Dèi per i morti, e i vivi che portavano nella carne il fuoco e l’orrore della guerra. Passarono tre anni di desolazione. Per aiutare il suo Paese a rinascere dalle rovine, Takaiuki, a 18 anni, cominciò una nuova vita: quella di maestro, Ma non riuscì più ad abituarsi a vivere. Pensava ai suoi 2000 compagni morti nel Pacifico, sepolti sotto le grandi onde azzurre. Perché lui solo doveva vivere nella miseria e nella disperazione del dopoguerra? Mattino del 20 dicembre 1948. Takaiuki ha preso una decisione terribile. Depone sulla tavola per la madre una busta. Vi ha collocato una ciocca dei suoi capelli. Un foglio manifesta le sue ultime volontà. Beve un bicchiere di “sakè”, il liquore sacro. Si inchina profondamente davanti alle immagini degli antenati. Nessuno lo benda con la bandiera della gloria, e non scintillano i gradi lucenti della sua uniforme. E’ un piccolo uomo giallo, vestito di grigio, che ha deciso di togliersi la vita. Si getterà nel fiume che scorre non molto lontano dal suo quartiere. I gorghi lo travolgeranno e le onde lo trascineranno fino al grande oceano, dove il suo corpo si riunirà a quello dei 2000 suoi compagni periti nel “vento di Dio”. Ma lungo la strada, Takaiuki sente all’improvviso un suono di campane che viene da una piccola chiesa cattolica. “Non so perché sono entrato in quella chiesa… dirà poi… Ricordo solo che ci sono entrato: era la prima volta da quando ero al mondo. Stavano celebrando la Messa. Non capivo quello che diceva il Sacerdote. Ma i fedeli pregavano in giapponese ed io capivo. Provai una grande curiosità… scoprivo un mondo nuovo… mi pareva ora che uscire per andarmi ad uccidere sarebbe stato insensato”. Takaiuki torna a casa. Sua madre non ha ancora visto la lettera di addio. La strappa. Ne scrive un’altra, al sacerdote cattolico di quella chiesa. Gli domanda di aiutarlo a capire “a cosa serve la vita”. Seguì un mese di dispute accalorate tra il “kamikaze” e un sacerdote cattolico francescano. Ma non furono solo gli argomenti portati dal sacerdote a convincerlo. Un giorno, a Nagasaki, scoprì un orfanotrofio. Erano centinaia i bambini giapponesi, cui la guerra aveva ucciso papà e mamma. Molti erano piagati atrocemente dal fuoco atomico: avevano gli occhi spenti, o la pelle lebbrosa o la spina dorsale contorta. Nessun giapponese si era interessato a loro. Vivevano e sorridevano ancora perché gli uomini bianchi, dei frati Minori di S.Francesco, erano venuti dall’Europa per dedicare ad essi la loro vita. Takaiuki ne fu scosso. Si domandò: “Perché questi uomini hanno abbandonato la loro patria, la loro famiglia, sono venuti qui, in una terra straniera, per curare i nostri orfani abbandonati?”. Il perché lo trovò presto: Takaiuki scoperse Gesù Cristo e il suo messaggio d’amore nel Vangelo. Ora aveva ottenuto una risposta formidabile alla sua domanda: “A che serve la vita?”. Serve per donarla ai fratelli più poveri, più abbandonati, nell’amore di Cristo che per primo la donò. Ora l’antico kamikaze vuole donare anche la sua vita. Dopo 5 anni donati agli orfani di Nagasaki, Matsuo Takaiuki ottiene di entrare in seminario. Nel 1960 un aereo lo porta in Italia, a Padova, a iniziare i suoi studi di Teologia nell’Istituto Teologico di Sant’Antonio. Aprile 1963. I cittadini di Padova che hanno alzato gli occhi al cielo limpido ed azzurro, trasaliscono improvvisamente. Un minuscolo aereo sta picchiando dritto verso la Basilica di Sant’Antonio. Scende veloce e verticale come un sasso. Ma è questione di pochi secondi, l’apparecchio che sembrava volersi sfracellare tra le cupole della grande chiesa, piega improvvisamente a sinistra, scivola d’ala e con un’ampia curva riguadagna quota, dileguando poi lontano, verso l’ampio e verde campo d’atterraggio. A bordo c’erano alcuni giornalisti con Takaiuki. Con la scusa di una gita nel cielo di Padova lo hanno portato in alta quota e cedendogli i comandi lo hanno invitato a ripetere una “picchiata” alla kamikaze. Takaiuki sta allo scherzo… Marzo 1964. Il vescovo stende le mani su di lui, invoca lo Spirito Santo affinchè discenda sulla fronte che doveva essere recinta dall’Hinomaru dei piloti suicidi. Un kamikaze diventa sardote. Angelo Bonanomi

Condividi