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IL MONDO DI ARTHUR NEWMAN

Quante volte avremo sognato ad occhi aperti mondi nuovi e immaginari, vuoi per qualche sconforto lavorativo, vuoi per qualche delusione amorosa, vuoi per il semplice desiderio di “sfondare” e di fuggire lontano da tutto e da tutti. Essere qualcun altro, cambiare radicalmente vita, ricominciare tutto dal principio lasciandoci alle spalle un’esistenza poco soddisfacente. Una sorta di cambio di carta d’identità. Magari, con stampato sopra anche un nuovo nome e un nuovo cognome. E’ quanto decide di fare Wallace Avery (Colin Firth). Uomo di mezza età, un divorzio dietro di sé, una nuova compagna ogni giorno più distante, un giovane figlio sempre meno interessato a lui, frustrato da un lavoro insoddisfacente. Deciso a dare un taglio netto alla propria esistenza, a suon di soldini si procura un nuovo passaporto e finge un suicidio costruendosi una nuova identità. Terre Haute (Indiana) è la meta del viaggio che decide di compiere Arthur Newman (questo il nuovo nome scelto e col quale si spaccia per giocatore di golf professionista). Durante il viaggio incontra una donna affascinante ma altrettanto ambigua e difficile: Michaela Fitzgerald (Emily Blunt). Pure lei (ruba il nome alla sorella gemella) con il medesimo desiderio di ritagliarsi una nuova vita per dimenticare il suo passato. Il viaggio, proseguendo insieme e passando attraverso case di altre coppie, usando le identità e le storie di altra gente comune, farà scoprire (o riscoprire) loro, nell’intimità del rapporto che viene a galla, quella rinascita che cambierà le loro vite, riportandoli alle origini dalle quali non è così facile fuggire. A gettare un suo sguardo sul tema della ricerca della propria identità è il regista (di spot pubblicitari) italoamericano Dante Ariola, che oggi si cimenta per la prima volta con il grande schermo impostando la sua opera prima quasi esclusivamente sulle evoluzioni dei legami interpersonali e psicologici dei due protagonisti. Una vicenda che, pur mantenendosi a debita distanza dal melodramma e sorvolando troppo rapidamente su alcuni aspetti (il suo supposto suicidio, l’assenza del rapporto col figlio, il ricongiungimento con gli affetti originari), finisce per risultare senza guizzi o scene particolari che catturino appieno l’attenzione dello spettatore.
Un’esposizione che, conferendo alla pellicola quella sorta di road-movie a spasso per l’America, non sa bene dove andare a parare e non crea quel giusto impatto emotivo per appassionarsi ad una storia a tratti ancorata ad un immobilismo generalizzato.
Il soggetto è anche interessante, ammettiamolo pure. Gli spunti di riflessione altrettanto (il peregrinare come ritrovo di se stessi, la fuga dai propri doveri, le vite di chi ci sta attorno ritenute più avvincenti della propria).
Ma alla fine si resta col dubbio: “Siamo proprio così sicuri che un’altra esistenza, diversa dalla nostra, sia sempre più piacevole e stimolante?”. Un interrogativo al quale, purtroppo, anche la pellicola non riesce a dare una risposta esaustiva e completa.
Bastava solo una marcia in più e avremmo promosso il film a pieni voti.

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