“È quasi mezzanotte, non vi vergognate?
C’è un bambino che vorrebbe dormire, su di sopra!”
La voce di Ivonne ancora se la ricordava.
Così dolce quando gli cantava la ninna nanna, strascicata nella sua brescianità, e così aspra quando rimproverava il povero Piero per un paio di bicchieri di troppo giù nella cucina in bianco e nero di una casa della bassa, tra le nebbie di un Natale che veniva un paio di settimane dopo Santa Lucia, con le vetrine di Cía Menèla luccicante di pistole scacciacani e costruzioni Lego, che lui mai avrebbe avuto in regalo, troppo costose per la busta paga di un operaio con due figli da mandare a scuola.
Così il povero Piero arrossiva, balbettava qualcosa e Cèco, un po’ brillo di vino da due palanche a bottiglione, si scusava e levava le tende, in quella domenica sera di un dicembre lontano.
Era un grande, il Cèco, come erano grandi, ai suoi occhi di bambino, gli amici di suo padre.
Cèco Balòta, muratore specializzato, Mario Francés che si narrava profugo d’oltralpe ai tempi in cui essere partigiani significava come minimo finire ingozzato di olio di ricino, e Sànder Bertòs, che di mestiere faceva il maringù, il falegname, in una segheria di via Ermengarda, proprio a due passi da casa sua.
Se la ricorda ancora lui, quella segheria. Ricorda il profumo di legno appena tagliato e la resina che si attaccava alle dita. E il materasso di trucioli sotto le scarpe che sembrava quasi di sprofondarci dentro e gli veniva voglia di sdraiarsi ascoltando il rumore della sega circolare che girava a mille. Ci andava per comprare i fogli di compensato a venticinque lire il metro quadro, e tornava a casa con un sacco di idee che finivano in ritagli incompiuti nel sottoscala dove si rifugiava per sfuggire ai suoi mostri, col seghetto in mano. Immaginava di fare grandi cose, ma non le finiva mai, chissà perché.
Un po’ come i racconti che avrebbe voluto scrivere da grande, sempre lasciati a metà. Si perdeva nei ricordi del passato, e raramente si trovava a vivere il presente.
Una sera di mezzo secolo prima, suo padre gli raccontò una favola.
Gli raccontò di Cèco, il suo amico buono, che per campare tirava sù case a poco prezzo, a colpi di cazzuola e badile, mescolando cemento e sabbia in una scalcagnata betoniera.
Gli parlava, Piero, delle fatiche che bisogna fare per costruire qualcosa, per lasciare un ricordo che vada appena oltre la vita di un uomo, appena oltre il respiro di pochi decenni. Lui non capiva, all’epoca, ma quelle parole gli risuonavano nella mente in quella sera di un dicembre di mezzo secolo dopo. Mezzo secolo, più di mezza vita. Molte morti erano passate nel frattempo, mentre i capelli imbiancavano e le rughe segnavano il suo volto, ma le parole di Piero restavano. Ricordava le sue mani sporche di olio e benzina mentre lavorava sul motore di uno scarabocchio a due ruote, con l’alito che sapeva di officina e di ferro battuto, ricordava di quando gli pettinava i capelli con lui che gongolava sul divano, davanti a un telegiornale muto, la sera dopo dodici ore di lavoro duro, vero, altro che scrivania e penna in mano.
E ora, qui, svaccato su un divano rosso sangue, pensava al sangue che scorreva nel mondo. Quel mondo che sognava di cambiare, senza avere le palle per farlo davvero.
Si limitava a sognare. Sogni, solo sogni senza senso. Viveva tre spanne oltre la linea che divideva la terra dal cielo, oltre l’orizzonte che segnava il limite. Gli piaceva superarlo, provare a se stesso che ce l’avrebbe fatta anche quella sera, sarebbe morto e poi risorto, per ringraziare la mattina dopo i suoi avi, allineati sulla mensola del soggiorno, proprio dietro al Buddha. Avrebbe stretto le mani in una breve preghiera, e avrebbe continuato la sua vita, sprecando minuti e ore preziose in un girotondo di noia e rimpianti, ricordi e rimorsi, cercando un senso che non fosse l’unico, immaginando una via d’uscita ormai sbiadita da mille notti insonni sepolte da un manto di nebbia padana, poi avrebbe indossato il cappello e sarebbe uscito nel clima polacco dell’ennesima giornata insulsa che lo aspettava, sperando ancora una volta di vedere la parola fine sullo schermo di un cinema che non gli piaceva più.
Massimo Zucca
