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Greta, storia di un’abbandono

Ho percorso una parabola lunghissima il cui inizio e la cui fine sono lontani anni luce e nulla hanno a che fare l’uno con l’altra se non per il fatto che sempre e solo io ne sono l’interprete, attrice e spettatrice insieme di un itinerario ineluttabile. Mi era sembrato di cavalcare un elegante arcobaleno, sontuoso per la colorazione sfumata ed evanescente ero avvinghiata al nulla della trasparenza e dell’immateriale per un sortilegio che cancellando la memoria preclude la possibilità di qualsiasi passaggio ad una nuova sfera della vita. Fantasticavo su intricate annotazioni cercando di comprendere cosa mi stesse succedendo mentre planavo leggera come un angelo, dinamica come l’arco che, immobile nella sua tensione scocca la freccia contro la dimensione dell’ignoto, trafiggendolo. In altre parole, forse più intelligibili per voi, ma che non riescono a descrivere il suo stato d’animo ben più complesso e tragico, ero stata infilata in una borsa, portata ai margini di un bosco e lì, lanciata con forza, deliberatamente lontano, il più lontano possibile, scagliata come si scaglia una pietra, a rotolare sulla superficie dell’acqua, guardandola poi, affondare. Vedete con chiarezza che quanto appena detto non può esprimere nulla se non la descrizione cruda della facciata di questa storia abietta, la cui profondità è legata indissolubilmente alla mia identità, al mio vissuto, al mio destino. E’ una storia identica a mille altre e il terreno su cui è stata scritta e dal quale sono stata plasmata forma e sostanza, incarnandosi in me e diventando reale, è parte dello stesso humus che le ha inventate e create tutte quante, quell’humus nutrito di assenza di amore, di mancanza di partecipazione emotiva, quel terreno strano che trova di che saziarsi ingordamente in un organo molto particolare che fornisce instancabilmente forza ed energia, per crescere, sussistere, diffondersi, il cuore umano. Quell’ humus, quel cuore, sono parte della stessa entità. Dopo una sospensione nell’aria, di incalcolabile durata…. mi sembrava di volare nell’infinito…….sono atterrata violentemente senza avere peraltro avuto la possibilità di ruotare su me stessa per ottenere dalle mie zampe elastiche e dai miei carnosi polpastrelli un attutimento alla caduta franosa.
Il dolore è stato cocente. La mia coscienza è penetrata in un labirinto onirico Il cui potere di donare l’oblio ha permesso che ne fossi pietosamente custodita così che la percezione della sofferenza si è affievolita a tal punto da addormentarsi, lasciandomi in pace, infine. Quanto sia prolungato questo viaggio nella purezza, del silenzio, non so, ma il sonno è svanito all’improvviso, squarciato dal risveglio, dal risveglio del dolore, io atterrita e rinchiusa in quella borsa, in preda a un panico invincibile, ma le risorse insospettabili di cui ero dotata sono entrate in azione e zampe ed artigli si sono moltiplicati, rinvigoriti dall’angoscia e dalla determinazione di liberarmi e hanno avuto la meglio sulla tela abbastanza sottile della borsa, che ben presto, si è lacerata. Il mio musetto ha fatto capolino con spinte poderose e sapete che quando la testa è fuori, il resto del corpo segue, repentino e fluido, morbido e sinuoso, così è il corpo del felino, intrattenibile, sgusciante, sconfinato. Una nascita, la seconda nascita. Mi sono trovata in un luogo mai visto, né odorato, né attraversato, neppure nei sogni… tentare di sopravvivere era l’unico lusso che potevo concedermi, miei compagni di viaggio erano fantasmi gentili, ombre compassionevoli, senza consistenza ma abili nel suturare ferite, risanare piaghe, guarire il dolore.
Mi indicavano la via, disegnando confini improbabili e virtuali, che avrebbero dovuto tenermi lontana dal pericolo!
Alzavo il nasino annusando il profumo del bosco, ascoltavo l’ansare lieve dei partecipanti del magico corteo, di cui ero ospite gradita, ricevevo carezze impercettibili come il battito delle ali vellutate di una farfalla, consolatrici carezze che attenuavano la mia pena, conciliando il desiderio di perdermi per sempre in n sonno quieto come in un mare che non conosce tempeste, accogliente e amico, con la ricerca spasmodica di un rifugio e di cibo. Quei compagni di viaggio mi hanno dissuasa dal placare la mia sete ad un pozzo le cui acque erano marcescenti, porgendomi gocce di lucida brina e mi hanno guidata abilmente in quel fitto bosco bellissimo che mi aveva accolta senza riserve. Con maestria hanno svelato il segreto di sentieri ben dissimulati, lungo i quali mi sono mossa discretamente, cercando a lungo una via d’uscita, tanto a lungo. Percepivo sensazioni innumerevoli, e i suoni che toccavano il mio cuore creavano la musica delle maree, composita armonia, netta, tersa come la lancia della prima stella della sera. Solo un suono non udivo, pur cercando con trepidazione di distinguerlo tra gli altri, un suono pulsante e profondo, misterioso come il rombo del centro di madre terra, che ben poche persone odono, perché ben poche ascoltano, era assente, implacabilmente assente quel battito agognato, il battito di quel cuore sul quale tante volte mi ero addormentata, in grembo a chi, forse mi aveva amata, quel cuore umano che mi aveva a lungo cullata con ninne nanne dolci ed avvolgenti, non batteva più, ammutolito per lo stupore di quel gesto, rappreso in un silenzio mortale, il gesto del mio abbandono, gelido cuore. Ho vagato senza fine. Mi raggomitolavo, quando la trovavo, anello perfetto di carne e di pelo, in piccole soffici tane oscure, tentando di scaldarmi e nel sonno, di allontanare i morsi della fame, letargo misericordioso, che non durava a lungo. Il bosco era grande ai miei occhi, ma cominciavo a conoscerlo, e mi rincuorava il popolo degli alberi, così variegato per l’altezza dei fusti l’abbondanza delle chiome, per l’età venerabile che non sempre si identificava con la maestà imponente di alcuni. Il vento rincorreva le foglie, inducendole a danzare con un ritmo circolare, sbuffante, allegro, simile a un girotondo infantile che celebrante, ne assecondava il movimento, elegante nella sua semplicità turbinosa, sussurrando parole irripetibili, in un idioma astrale, nella sa cralità di un rito. Alla base degli alberi crescevano ciuffi di felci verdissime e sagaci, le cui foglie segmentate mi ricordavano un pregiato arazzo, sapientemente ricamato, affiorante da tempi non conosciuti, erano state fate a comporlo, o impassibili elfi che non esistono più perché nessuno crede in loro? O altre magiche creature sognatrici del nulla? Diverse anime arboricole, trillanti narratrici di un mondo senza umani.
Dalla loro presenza traevo conforto, mi sostenevano senza afflizione nella mia deriva, nella quale l’abbraccio di madre terra mi accoglieva senza riserve, amandomi. Ma quel che di fisico, nella materia spirituale del mio corpo, ancora perdurava, mi spronava con infaticabile energia a sopravvivere, consumandomi si consumava, però, usurando inesorabilmente la trama vitale della carne, quella forza, che non voleva cedere, ancora.
Ero smagrita, eterea come il respiro della luna che mi guardava con pietà celeste, nascondendo dietro il sorriso la tristezza, il mio corpo sottile si rifugiava in lei, celando le forme dietro l’alone diafano della pienezza lunare, ne contavo le fasi, con stupore ammirata per la precisione matematica dello svolgersi, la nostra dedizione era un fiume mistico nel quale scorrevano immagini e suoni destinati a poche, vicende animali, di ogni specie, l’erotico canto delle balene, in un sottofondo impercettibile, lontanissime, in un eden preumano, canto di ossidiana, solitario….dopo la fine. La luna amava quel minuscolo citoplasma che ero diventata, spettro incantato, oltre ogni nostalgia e per farmi compagnia inventava storie dedicate a me, che mi affidava il vento… di portare come si portano i freschi semi… ma ascoltando l’eco di queste storie, capivo che si stava declinando il mio tempo, naturalmente, con tranquillità, verso l’ultimo sipario di luce.
Stavo quasi per congedarmi, un mattino, rispondendo al saluto della stella più riluttante a scomparire, quando, da non so dove ha preso corpo un giovane, materializzandosi davanti a me. Silenzioso, attento, inatteso. Un incontro che non cercavo più, con alcun umano, che non desideravo affatto, ormai, ma è stato fatale, ed inevitabile accettarlo; lui mi ha intercettata con gli occhi del cuore, rapendomi dall’inversibilità divenuta una dimora ormai congeniale, e non potevo deluderlo, non ancora e l’ho lasciato avvicinarsi, senza fuggire, raccogliermi con tenerezza struggente e portarmi via. Ha portato con sé l’essenza dell’ultimo periodo della mia vita, la metamorfosi del mio spirito, la mimesi del cuore. Ha portato l’ampolla preziosa nella quale era custodito il mio tesoro, alfa e omega del divenire di ogni cosa, confluente nell’anima del mondo, nella mia anima. Sono stata curata con tanto amore e irriducibile perseveranza, nutrita, curata, accudita come l’infanta più sacra, a corte.
Avrei voluto offrire la consolazione di un esito felice, oh come avrei desiderato riconoscere l’amore ricevuto, ricambiandolo nel modo che voi umani prediligete, amore, un lieto fine, oltre ogni speranza.
O disperazione. Ho deciso di andarmene, comunque, alla fine. Nel rispetto della mia conquistata libertà, riconoscendomi il diritto di vivere e morire, a modo mio. Me ne vado in pace, respirando con gratitudine la fragranza di quello che ho ricevuto, dell’amore incondizionato che mi è stato concesso, proprio alla soglia del compimento della mia storia, nei giorni antecedenti il Viaggio. Me ne vado riconciliata, consapevole che la giustizia della luna e delle stelle, l’imponderabile perfezione della galassia, l’equilibrio e l’armonia del creato, trascendono vanità e miseria umana.
Mi attende uno spazio profondissimo dove tutte le forme e la loro adamantina materia e l’anima dell’universo e i frammenti di miriadi di esistenze violate e la mia vita, si congiungono, là dove il tempo, lo spazio e lo spirito, diventano una cosa sola. Ho amato la vita, la mia vita di gatta, in tutti i suoi attimi, stagione, secoli, ere, nell’esperienza “agiata” del primo periodo, convivenza con l’umano, e in quell’aspra e straordinaria dell’ultimo, nel regno del bosco.
Se devo essere sincera e dirvi la verità più segreta, ciò che riconosco affine, totalmente affine e identico al centro del mio cuore è proprio l’inestimabile scoperta che mi ha aiutata ad arrivare qui, dove sono ora: il bosco, le sue ombre protettrici, l’odore ineguagliabile della terra, la danza sabbatica delle principesche chiome, il velluto ruvido dei tronchi, le radici nodose, architettura sublime dell’anima ctonia, onniveggente, la felce allegra e seducente, e la luce del giorno, la luce della notte, nel suo vaporoso abito da sposa… Questo ho riconosciuto come mio regno di appartenenza, regno della libertà, dello smarrimento più vertiginoso, della caduta libera, ammaliante, dell’ascesa più maestosa, solenne, verso Dio.  Libertà e riscatto da codici, dogmi, oscura prigioni, e tiranni, che irretiscono il pauroso e fanno germogliare titubanze e torbide ore insonni. Il mio regno è il regno della terra, del cielo e delle acque, tutte, distante da ogni umana costrizione, anche il vincolo bruciante dell’amore; irraggiunto quel regno mi accoglie.
Me ne vado, è una fresca notte illune, profumata. Di me resta il sentimento verso colui che mi ha raccolta e che lascio andare.
Michela

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