Il primo ricordo di gioia si tinge di rosso, amaranto, rosa acesso, lillà, cascata di colori e confetti sapientemente gettati alla sposa in segno di buon augurio.
Brulicavano le vie del paesello, assolate abbracciavano giovini dinne, bimbe dalle bocche inzaccherate, nonne dai volti rugosi e fazzoletti neri annodati sotto il mento.
Era il nero il colore che predominava sfacciato, segno di un lutto imminente, contrastava con gioia e bellezza di una giovane sposa.
Fra le mani ciascuno portava un piatto carico di petali di fiori misti a confetti e riso che all’unisono veniva riversato sugli sposi all’uscita dalla chiesa. Io piccina, occhi sgranati dallo stupore, mi mischiavo al gruppo di bambini, mano stretta a quella mia madre, per poi correre a perdifiato riempiendo mani e tasche di confetti che consumano quieta all’ombra del vecchio limone ricurvo.
In fretta sono scorsi gli anni, da piccina a donna la cui figura esile si fletteva dinnanzi ad uno specchio circondata da abiti da sposa dalle mille fogge e colori.
Da me prescelto uno di linea semplice, morbida, color avorio, arricchito da un prezioso corpetto e da un velo sottile, palpabile. Da giovine sposa dai mille sogni a madre, gioia e fremito nel sentire una vita crescere dentro, farsi parte viva, vibrante.
Poi la chiamata, epifania e risveglio, tristezza e pianto, infiniti ricoveri, colloqui, ricerche genetiche sino alla formulazione di una diagnosi: ”Sindrome di Rett”. Morte e rinascita, capillare presa di coscienza, attesa e ritorno, arresto e chiusura, desiderio di urlare, nel mondo rigettando tutti i demoni.
Momenti di tenerezza coniugale rubati al tempo, conduti di stanchezza, abbracci e baci che accompagnavano nelle fredde notti svilite entro pronti soccorsi affollati.Fede ed affido, dopo il silenzio la luce, dopo la tempesta la quiete.
Gioia di portare al mondo il mio esser madre, piaga ed unguento; consapevolezza di dover vivere la malattia della mia Vittoria come ponte di lancio e non come tomba; di essere vivi e che solo il Buon Dio ci avrebbe guidato e sostenuto.
Lotta ed ancora lotta contro le istituzioni, leggi, burocrazie, mentalità, al mondo volendo affermare e riaffermare che Vittoria era ed è un grande dono e che a nessuno avrei permesso di metterla da parte.
Lotta con il male, demone pronto ad inghiottire passato e presente, mettendo alla prova, all’orecchio sussurrando senza sosta invito a lasciar cadere, ad abbandonarsi alla perdizione, a rinunciare a Vittoria per una vita meno tribolata. Ho urlato, soffocato, veritiero, ruggito e boato che non accettava compromessi. Notti in cui il male mi prendeva alla gola inchiodandomi al pavimento, obbligandomi ad essere dei suoi. Lotta cruenta che mi trovava al mattino serena, fortificata. Mi segnavo col segno della croce ed iniziavo la giornata affidando al Padre debolezze, chiedendo forza per non desistere.
Voglia di maternità s’affaccia nuovamente, bussa a botole segrete, s’intrufola guardinga fra le pieghe delle vesti, trova rimando nei gesti scanditi di quotidiani uguali e diversi.
In una calda notte di luglio venne alla luce Celeste. Parto difficile, complicato, pericoloso, che ha sfiorato la morte causa emorragia. Lotte contro comuni, regioni ed Ats allo scopo di difendere la mia famiglia, mai avrei rinunciato a Vittoria, le due sorelle dovevano crescere insieme.
Il giorno della dimissione erano allegre le risa di coloro che s’apprestavano a far ritorno a casa.
Le mie erano lacrime, fonde e copiose.
Il medico mi abbracciò augurandomi buona fortuna. “Perchè piangi?” mi chiese.
Non risposi alla domanda nel cuore e nel corpo sentendo quello che a breve mi avrebbe atteso.
Sapevo che avrei dovuto lottare a denti stretti per sopravvivere, sarei stata controllata a vista d’ occhio dalle autorità competenti i quali avrebbero valutato se pericoli per Celeste in quanto Vittoria non dosa la forza ed avrebbe potuto arrecar danno alla sorella.
La mia vita era a ciclo continuo: gestivo la piccola, allattandola e curavo Vittoria nelle molteplicità delle sue fragilità. Poche ore di sonno con la testa riversa sul tavolo mi dava la forza di riprendere il cammino.
Avevamo scelto di tenere con noi Vittoria e così sarebbe stato. Avevamo scelto di far crescere Celeste con Vittoria e così sarebbe stato, a costo della vita. Oggi, a diatanza di 13 anni, posso dire di aver superato l’esame. Viviamo tutti insieme, a casa, Vittoria e Celeste si vogliono bene, fra alti e bassi cavalchiamo la vita al centro mettendo l’ammalato ed il rispetto per la malattia.
Oggi posso dire di essere orgogliosa e fiera del cammino intrapreso: sbagliando, ritrovando il percorso, fra lacrime e risa, conquiste e sogni la gioa è di sentire, vedere, odorare l’amore e l’affetto, linfa vitale che scorre ripida e fluente.
Oggi, a 50 anni, forme più arrotondate, seni maturi, occhi rivolti alla bellezza di un cielo puntato di luci, mi rivedo timida vestita da sposa le cui mani percorse da un leggero tremito s’affaccia alla vita.
Nella quiete di un momento d’amore, mio marito sussurra: ”Ti guardo e non riesco bene a comprendere il rapporto carnale, viscerale fra te e Vittoria. Da due persone siete una”.
La mia risposta è rapida e fulminea: “Amore di cui ho paura, che va oltre ogni dire, pensare o sentire, tanto fondo da non avere radici….”.
Milena, la mamma di Vittoria e di Celeste