Un viaggio di passi, di cartine scomposte, di posti, di pasti, di essenze, di assenze. Un viaggio, di passati, di possessioni, di passioni, di ossessioni. Un viaggio, di paesi, di terre. O di cielo e di acque. Un movimento, forse solo falso, niente di più immobile di un corpo che si strania dalla vita. Stazioni, città che passano in sguardi indifferenti, così freddamente indifferenti ma che raccolgono in sè tutta la pensantezza di esserci. E tutto questo incedere forse non è altro che un labirinto borghesiano, per altro senza fili, per altro troppo alto nelle sue mura. Un continuo giro quasi egoistico su se stessi, per poi scoprire che il centro del labirinto non esiste, non è mai esistito se non nei racconti notturni dei marinai, nelle cui leggende ogni movimento arriva a essere una direzione. E non si contano più i passi, le traiettorie, senza arrivare, si immagina quel centro che diventa una meta, un miraggio, un desiderio, un vuoto, un baratro, un terrore. Si sbriciolano sulla testa le coperte fatte di cieli orgogliosamente innalzati nei momenti di forza. I passi si fanno lenti, i piedi sporchi e stanchi, le labbra arse da troppo sole e da poca acqua. Si trascina il passato nel rullo ad alta velocità e non sembra più nemmeno di riconoscersi. Forse bisognerebbe fermarsi, prendere fiato, provare a raccontare il silenzio. Allora tornerebbero in mente certe sere, di fianco alla radura e davanti al mare, fra l’odore di rum, tabacco e chiodi di garofano, quanto il vento sapeva di cannella e il mare sembrava cantare, quando il profumo della primavera sembrava costante e i colori privi di tramonto. Certe sere, in cui nessuna partenza era rinuncia, certe sere in cui ogni arrivo era solo l’inizio di un altro viaggio, certe sere di quelle antiche vie carovaniere di legno e sandalo, su cui imprimere calligraficamente le rotte dei sogni divenuti realtà momento per momento e il passaggio della vita sul volto un’avventura tutta da sentire. Erikal da Internet