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BRACCIANTI

Nella nostra piccola azienda agricola si sono susseguiti, soprattutto in passato, quando la meccanizzazione agricola non era ancora sviluppata, molti braccianti, il cui lavoro è stato per noi fondamentale, e da cui, per il loro modo di essere, ho imparato veramente molto.

Fra questi c’era Mario Docio, in realtà era un soprannome, il vero nome di battesimo non lo ricordo neppure, viveva da solo, era molto sordo e quando si interagiva con lui bisognava sgolarsi, in apparenza sembrava si muovesse lentamente, un po’ come un bradipo, ma quando ebbi modo di lavorare con lui, dovetti ricredermi sulla sua finta lentezza.


Dovevamo tagliare le seme ad un campo di mais (nel periodo estivo quando il granoturco aveva già la pannocchia ben formata, si tagliava la parte al di sopra di queste, le cime o il pennacchio, che sarebbe la parte maschile della pianta), venivano utilizzate per alimentare le vacche, essendo un foraggio verde, il bestiame le divorava inoltre apportava una certa frescura agli animali. Armati di marasol (falcetto), cominciammo l’opera di taglio in un grande campo, io iniziai dal lato est e Mario dal lato ovest, un’ora dopo, io avevo fatto il doppio del lavoro del mio bracciante, i miei sedici anni contro i suoi sessanta, si facevano sentire.

Dopo due ore, ho cominciato a sudare come una bestia, credevo di crepare, mi mancava il fiato, ho mangiato perfino qualche pannocchia per tirarmi un po’ su, Mario invece procedeva senza mai interrompersi, sempre con la stessa cadenza.

Dopo cinque ore tutte le cime del mais erano state sistemate ai bordi del campo, pronte per essere caricate sul carro; io, avevo tagliato un terzo del campo, il mio bracciante i restanti tre quarti; quando cominciammo a caricarle sul carro, lui mi guardò negli occhi e si fece una grande risata, io invece gli occhi li abbassai; credevo di avere la forza di un toro, ma la sua esperienza mi aveva rotto le corna.

Un’altra caratteristica del Signor Mario, era quella d’avere un manualità straordinaria nel costruire qualsiasi cosa: scope artigianali, sedie di legno che impagliava personalmente, trespoli su cui si mettevano le damigiane durante il travaso, scale di legno e tant’altro.

Una volta camminavamo lungo la riva di un fosso e lui vide due altissime piante secche, prese il seghetto che sempre portava al manubrio della bici, le tagliò e dopo aver staccato i rami principali, ne prendemmo in spalla una ciascuno e le portammo un cascina, — queste diventeranno una scala bellissima — mi disse con aria soddisfatta.

Dopo il regolare orario di lavoro, Mario Docio si mise all’opera, io lo osservavo in religioso silenzio, l’abilità con cui intagliava il legno mi lasciava ammutolito, ogni tanto gli davo una mano nel tener fermo i pali e nel giro di una settimana creò una scala bellissima.

Circa dieci giorni dopo, la lampadina sotto il portico, attaccata alla più alta trave di legno, si fulminò, bisognava sostituirla, all’epoca non esistevano i cosiddetti Merli (carrelli elevatori semoventi col braccio allungabile ), bisognava salire con la scala… fu così che inaugurammo l’opera d’arte di Mario.

Un altro straordinario bracciante che lavorava da noi ormai da molti anni era Umberto, cugino di mio padre, un uomo tutto d’un pezzo che per sembrare burbero portava vistosi baffi, in realtà era di una straordinaria bontà d’animo.

Quando la lampadina bruciò, mio padre appoggiò la scala all’altissima piana di legno per salire a sostituirla, le due estremità superiori appoggiavano solo per una decina di centimetri, Umberto poggiò i piedi alla base per evitare che scivolasse e mio padre salì… io osservavo col cuore in gola, faticavo perfino a respirare tanto ero teso e preoccupato.

Salito in cima, il mio papy sostituì la lampadina, poi si voltò verso di noi, ma guardando in basso gli venne un terribile giramento di testa quindi abbracciò la trave, non riusciva più a scendere, io e Umberto urlavamo: — non guardare giù, scendi lentamente — ma non c’era niente da fare, mio padre era terrorizzato, non si staccava più, allora Berto mi fa: — salgo io, lo porto giù a spalle — io replicai che era fuori di testa, mio padre pesava più di 70 kg, non ce l’avrebbe fatta e forse neppure la scala avrebbe retto ad un simile peso, ma lui mi disse di non preoccuparmi, sapeva quel che faceva, e se la scala l’aveva costruita Mario, di sicuro avrebbe retto.

Cominciò a salire ed io lo sostituii puntellando i piedi alla base della scala, arrivò in cima, piantò la sua spalla contro un fianco di mio padre ed urlò: — chiudi gli occhi, lasciati andare — nooo, ta set matt, caschiamo tutti e due — la scala traballava come un albero mosso dal vento, io avevo il cuore in gola.

Finalmente Berto riuscì ad estirpare mio padre dalla trave, scese lentamente con lui in spalla, a metà tragitto la scala si curvò diventando più corta, rimase praticamente incastrata nella piana di legno, li avevo già visti per terra, ma per fortuna, probabilmente Dio guardava verso di noi in quel momento, toccarono terra sani e salvi. Io e mio padre non finivamo più di ringraziare nostro cugino Umberto e lui in tutta tranquillità rispose: — ma grazie di chi? Ho fatto solo quel che dovevo! —.


Ho avuto la fortuna di conoscere molte persone, braccianti laboriosi, persone semplici, che sono state fondamentali allo sviluppo della nostra azienda, forse non erano molto acculturati, ma la loro bontà d’animo era tale che per me sono stati eccezionali maestri di vita, persone che porterò sempre nel cuore ed a cui sarò sempre grato.
Giordano

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