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ARRABBIATA

Arrabbiata. Se dovessi descrivere con una parola sola il mio stato d’animo, scriverei arrabbiata. Qualcuno come Einstein sosteneva che ogni minuto che passi arrabbiato, perdi sessanta secondi di felicità. Ma in questi casi, caro genio folle, ne vale la pena, in nome dei miei vent’anni e di chi è giovane come me. Ammetto che guardo poco la televisione: tra lo studio, il lavoro e i mille impegni di tutti i giorni alla tv preferisco il social network, che è poi in realtà solo una più allegra versione giovanile. Ma quando riesco alle otto di sera accendo la letale scatoletta parlante e mi diverto a vedere il modo diverso in cui i diversi telegiornali annunciano la stessa notizia. Poche settimane fa però il servizio in questione era piuttosto sconvolgente: una bomba, una scuola, una ragazza morta, decine di feriti, migliaia di sogni disorientati e infranti. Quando apprendo notizie del genere, io ricado nel mio pericolosissimo vizio, oggi posseduto da sempre meno persone: inizio a pensare. Penso a cosa voglia dire morire a sedici anni, allo sconforto degli amici, alla sofferenza inimmaginabile dei genitori, a quel banco vuoto, a quel futuro stroncato; penso a quel pazzo che ha osato giocare con i sogni di cristallo tipici dei ragazzi di quell’età e li ha mandati in mille pezzi, riducendoli come goccioline di una bolla di sapone scoppiata; penso a cosa si farà e mi rispondo che come sempre si farà tutto per una settimana e poi il silenzio. E non ho tutti i torti, la mia mente viziata vede lontano: parte la caccia allo scoop. Le immagini di una Melissa piccola, presentate con una canzone strappalacrime di contorno; le frasi rubate dal profilo suo e dei suoi amici, incapaci di spiegarsi tutto ciò; i microfoni cacciati in bocca al fidanzato, agli amici, come se bastasse trovarsi di fronte una giornalista dall’aria afflitta per trovare la voglia e la forza di esprimere quel gran vortice di emozioni che un fatto come questo può suscitare; gli zoom delle telecamere che puntano senza pudore una piccola bara bianca; i flash che accecano il papà della ragazza, vedovo della moglie ancora troppo sotto shock nel giorno dell’ultimo addio alla sua Melissa. Si ferma per strada la gente, si vuole sapere tutto a proposito di quella piccola creatura vittima di tanta violenza. Il momento di maggior rabbia arriva quando ad essere intervistata è la moglie del boss fondatore della mafia pugliese: “Non incolpateci: non potremmo mai prendercela con dei ragazzi, siamo madri e padri anche noi”. No, io non ci sto. Non ci sto che sia data la possibilità a chi ha ucciso, ha minacciato, ha attentato la libertà delle persone di passare per vittima di accuse infondate. A me non interessa se la mafia c’entra o no, non mi importa se sono davvero colpevoli: il fatto che immediatamente le accuse siano ricadute su di loro si basa su anni di soprusi e violenze firmati dalla sigla della Sacra Corona Unita. E tutta la gente morta per mano mafiosa, loro non erano persone? Non avevano madri e padri? In base a quale criterio per loro non si porta rimorso? C’è forse un’età oltre la quale è lecito essere uccisi senza provocare scalpore? Ecco, se io fossi stata l’inviato, avrei risposto così ad una donna del genere accigliata per le accuse rivolte al marito. Rispetto, dov’è finito questo rispetto? Non c’è più. Non è rispetto per Melissa, perché la sua morte doveva diventare un allarme, un grido straziante di denuncia alla criminalità, organizzata o non, e è invece diventata l’ennesimo giro d’affari. Non è rispetto per chi la conosceva, i genitori, i parenti, gli amici, il fidanzato, non è rispetto per il loro dolore che molti di noi possono solo immaginare. Non è rispetto per chi vittima della mafia lo è stato o lo è tuttora, perché veder concessa la possibilità di parlare di accuse ingiuste e di iniquità alla moglie di chi è stato per anni autore di soprusi e torti è la più grande ingiuria civile che possa farsi. Quando Borsellino diceva: “Parlate della mafia. Parlatene alla radio, in televisione, sui giornali, però parlatene”, non intendeva certo questo. Non è rispetto per l’italiano che accende la tv e vi trova un mondo capovolto. Puntate quegli obbiettivi su quelli che la malavita la alimentano dall’alto, pur preoccupandosi di stare dietro le quinte, puntateli su quell’assassino stavolta senza cerchi che confondono i lineamenti o effetti sonori che nascondono la voce, su quegli striscioni che gridano vendetta: “L’Italia è una paese che si ricorda di stare unito solo quando muore qualcuno.” Odio le generalizzazioni, per cui rivolgo tutta la mia stima a chi, perché effettivamente c’è stato, dalla ricerca dell’ultima notizia si è tirato fuori in nome del rispetto. Come la decisione di un noto canale di musica di interrompere le programmazioni contemporanee ai funerali e dedicare alla giovane Melissa due ore di canzoni. Ancora una volta, però, la stupida scatola parlante mi ha delusa, ancora una volta impugno il telecomando arrabbiata e premo off. Bastasse questo per farli tacere. Una studentessa ventenne

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