Rimani sempre aggiornato! - Scarica l'App di New Entry!

ALMENNO SAN BARTOLOMEO: STORIA, ARTE E TRADIZIONE

Almenno San Bartolomeo (Almèn San Bartolomé o semplicemente San Bartolomé in dialetto bergamasco) è un comune italiano di 6 207 abitanti della provincia di Bergamo in Lombardia. Il comune si trova circa 12 km a nord-ovest del capoluogo orobico e fa parte della Comunità montana Valle Imagna.
Storia
La storia del comune di Almenno San Bartolomeo è strettamente intrecciata con la storia di Lemine, prima, e con quella di Almenno San Salvatore, poi. Deriva il suo nome da Lemine, di incerta origine, toponimo di un vasto comprensorio territoriale racchiuso tra la sponda occidentale del Brembo e quella orientale dell’Adda.
Almenno San Bartolomeo nacque, per scissione, da Lemine Superiore, l’attuale Almenno San Salvatore, il 30 marzo 1601 quando fu erogato l’atto notarile che ne statuì la nascita e ne costituì come territori di pertinenza quelli di Albenza, Longa e Pussano.
Lemine
Il territorio faceva parte di un ben più ampio comprensorio abitato già in epoca precristiana dai Galli Cenomani, tradizionali alleati di Roma di cui acquisirono la cittadinanza nel 49 a.C., denominato Lemine. I romani lasciarono tracce notevoli della loro presenza in questo territorio importantissimo per l’aspetto strategico, percorso dalla strada militare che collegava Bergamo a Como, parte terminale di quella che univa il Friuli alle regioni retiche. Questa strada scavalcava il fiume Brembo, nelle vicinanze dell’area di San Tomè, con un ponte i cui resti ne lasciano tuttora immaginare le imponenti dimensioni.
Del ponte crollato a più riprese nel corso dei secoli non sono rimaste che scarse tracce e una memoria popolare che lo ha attribuito ai Longobardi, tanto da essere comunemente conosciuto come il Ponte della Regina, in questo caso Teodolinda. È comune fra la gente del posto che quasi tutto quanto sappia di antico venga attribuito all’epoca longobarda e molto spesso alla loro regina più famosa. Questo accade anche per il Priorato di Sant’Egidio, per la Basilica di Santa Giulia e per altri monumenti di epoca più tarda. Della presenza romana sono rimasti molti altri reperti archeologici il più significativo dei quali è un’ara dedicata al dio Silvano ritrovata nel territorio almennese. Altri reperti, alcuni di fattura pregiatissima come una Venere mutila, un torso maschile, una testa d’efebo, numerosissime steli funerarie e are votive testimoniano la presenza nella bergamasca di una comunità romana numerosa, strutturata e non soltanto militare. E’ inutile dire che la maggior opera che lascia di stucco chiunque si avvicini è la Rotonda di San Tomè, o solo San Tomè come è più generalmente nota, tesoro romanico di grande bellezza soggetta canonicamente dalla parrocchia di San Bartolomeo di Tremozia.
Lo scenario storico
Le comunità che via via si erano succedute dopo quella romana, eredi di questa ma anche di quelle che inevitabilmente erano state attratte e avevano ruotato attorno ad essa, erano state duramente afflitte da guerre e da pestilenze. Le genti sopravvissute, disperse sul vasto territorio di Lemine privo di centri abitativi definiti, costituirono delle vicinie dalle quali sono quasi sempre derivati gli attuali centri urbani Con la conquista longobarda Lemine divenne una corte regia molto importante sia per avere ospitato alcuni re longobardi sia per essere stata, nella prima fase del consolidamento del potere longobardo, un crocevia militare di notevole valenza politica. È proprio di questo periodo, la seconda metà del VII secolo, la prima citazione del toponimo Lemine, in un atto del re Astolfo:
«[…] in curte Lemennis vigisima die mensis Julii filicissimi regni nostri in Dei nomine septimo»
L’atto di Astolfo certifica anche l’esistenza della corte regia, mentre il toponimo Lemine sarà sempre più documentato nelle diverse varianti che porteranno poi a quelle di Almenno, Almé e così via. Dopo la caduta del regno longobardo il comprensorio di Lemine passò ai nuovi dominatori franchi, prima come possesso imperiale fino all’892 poi come feudo dei conti di Lecco, l’ultimo dei quali, Attone, lo lasciò dopo la sua morte (975 all’episcopato di Bergamo; le modalità di quest’ultimo passaggio non sono chiare.
Il periodo comunale
San Tomè seguì, subendole, le vicissitudini storiche che portarono alla nascita del comune di Lemine avvenuta il 3 marzo 1220 quando il vescovo Giovanni Tornielli rinunciò ai diritti di vassallaggio e ad ogni interferenza nell’elezione degli organi comunali, riconoscendo così l’autonomia della comunità a cui cedette la propria giurisdizione. Il XIII secolo fu il periodo di maggiore splendore della rotonda, che attrasse grande affluenza di fedeli e generose donazioni, mentre il XIV secolo segnò l’inizio della sua decadenza. Le lotte tra guelfi e ghibellini che afflissero il comune di Lemine durante il Trecento e che portarono alla sua divisione nei comuni di Lemine Superiore e Lemine Inferiore colpirono anche San Tomè. I contrasti fra le contrapposte fazioni comportarono la lenta diminuzione del numero dei fedeli di San Tomè fino ad arrivare alla loro quasi scomparsa dopo la distruzione di Lemine Inferiore dovuta al podestà di Bergamo, Gritti, 13 agosto 1443. Solo il XX secolo avrebbe fatto riscoprire e rinascere la rotonda come importante opera d’arte dell’architettura romanica bergamasca, frutto di quella devozione popolare che produsse altri capolavori romanici come la Chiesa di San Giorgio in Lemine, solo per citarne il più emblematico.
La fondazione
Non c’è una certezza storica in merito alla datazione della Rotonda di San Tomè.
Alcuni studiosi hanno ritenuto che la chiesa poggiasse sui resti di un antico tempio romano a motivo di alcuni imponenti porzioni di muro che avrebbero potuto costituirne parte delle fondazioni. Ipotesi questa che è stata contraddetta da recenti ricerche archeologiche. Altri l’hanno fatta risalire al periodo longobardo, forse a Teodolinda; altri ancora hanno propeso per il successivo periodo franco.
Si è concordi invece nel ritenere che in epoca franca, sotto i conti di Lecco, signori del territorio, sia stato costruito un primo edificio ecclesiale di forma rotonda che alcuni elementi architettonici, riutilizzati nella sua seconda ricostruzione, datano attorno al X secolo. Non aiuta, per la datazione, la sua architettura che fra l’altro ha subito notevoli rimaneggiamenti e una ricostruzione tra la fine dell’XI secolo e l’inizio del XII. La sua struttura circolare, il suo sviluppo verticale e concentrico, la sua somiglianza con il Duomo vecchio di Brescia piuttosto che con il battistero di san Giovanni di Arsago Seprio ne escludono una datazione antecedente l’anno 1000.
La ricostruzione
Il trascorrere del tempo, in un’epoca particolarmente tumultuosa, la probabile disattenzione dei fedeli pressati da altre urgenze e, non ultima, la tecnica di costruzione piuttosto primitiva contribuirono al degrado della primitiva chiesa attribuita al periodo franco. Tale degrado doveva essere così grave all’alba del XII secolo da spingere il Vescovo di Bergamo alla ricostruzione ex novo del tempio, utilizzando le fondazioni del precedente e tutti quei materiali il cui stato ne consentiva il recupero, come le colonne ed i capitelli che furono riutilizzati nel piano terra della Rotonda. Si può facilmente osservare come queste colonne siano state allungate, per adeguarle al nuovo progetto, appoggiandole su capitelli capovolti che così ne costituiscono la base, o inserendovi porzioni di altre colonne con un risultato scenografico di grande bellezza, eleganza ed imponenza al tempo stesso. Non si hanno documenti storici da cui ricavare la data certa di questa ricostruzione, ma dall’analisi stilistica della sua architettura, dallo studio dei materiali usati e della tecnica costruttiva è stato indicato come il più probabile il periodo che intercorre tra il 1130 e il 1150. Solo dopo il 1180 compaiono atti da cui si desume l’esistenza della Rotonda a quella data. Verso la fine del XII secolo alla Rotonda furono aggiunti il presbiterio e l’abside creando all’esterno un gioco di volumi ascendenti che ne snelliscono e movimentano la struttura.
Il monastero
Alla fine del 1100 e per iniziativa dell’episcopato di Bergamo, alla ricostruzione della chiesa di San Tomè seguirà la fondazione di un piccolo monastero femminile contiguo e unito alla chiesa stessa. Il monastero avrebbe dovuto assolvere, oltre all’esigenza di un luogo di preghiera e di rifugio femminile, alla custodia e alla manutenzione della chiesa. Anche in questo caso non si ha una datazione certa, ma solo presunta; l’unica data sicura è quella riportata in un documento del 1203 che ne testimonia l’esistenza, ricavando quindi che la sua costruzione era necessariamente antecedente, forse contemporanea a quella del presbiterio e dell’abside.
Il convento ospitò monache di provenienza locale appartenenti alla classe sociale medio-alta e qualcuna alla nobiltà di Bergamo.
Il monastero, sempre sottoposto all’autorità e al controllo episcopale, ebbe una vita alquanto travagliata specialmente nel XIV secolo, con scandali di ordine morale e finanziario che ne minarono la credibilità.
Lentamente ma inesorabilmente iniziò la decadenza del complesso, accelerata anche dalle lotte tra guelfi e ghibellini che infuriavano nel territorio coinvolgendo San Tomè e il suo monastero. Il complesso monastico cessò di esistere come istituzione nel luglio del 1407 quando, con i suoi beni e la chiesa, fu incamerato dal Vescovo di Bergamo. Dell’edificio conventuale non è rimasto altro che qualche traccia come i resti del muro d’innesto nella rotonda e tracce di fondazioni che si suppongono suoi.
Il monastero accanto alla chiesa esiste ancora oggi. Veniva chiamato “Degli Agri” o “Dei Campi”. Fu un luogo da sempre molto sacro per via soprattutto delle numerose tombe romane a inumazione ritrovate nei pressi della costruzione. Dopo essere stata colpita da un incendio e due fulmini, rimane indenne agli occhi del visitatore che può ammirarla nella sua intera bellezza e fascino.
L’epilogo
Dopo l’incameramento del complesso di San Tomè, chiesa, convento e terreni da parte del Vescovo seguì un periodo d’incertezza e di abbandono. I terreni, i beni più appetiti, furono dati in affitto ad affittuari a cui poco importava dell’edificio e che lo lasciarono nel più completo abbandono. Vi fu un effimero tentativo dell’episcopato di salvare dal degrado San Tomè e il convento affidandoli a degli eremiti, ma con scarsi risultati. Si giunse così al 29 aprile 1536 quando l’episcopato vendette il complesso ecclesiale alla Prepositura di San Salvatore di Almenno.
La lite
Il passaggio formale di San Tomè nella proprietà della prepositura di San Salvatore fu l’inizio di una lite plurisecolare. San Tomè era stata precedentemente sottoposta alla giurisdizione canonica della parrocchia di San Bartolomeo pur rimanendo, tra alterne vicende, gestita di fatto dalla parrocchia di San Salvatore. L’atto di vendita che sanzionava questo stato di fatto costituì l’inizio di una lite che si sarebbe risolta solo nel 1907. La situazione si aggravò maggiormente quando le due comunità che facevano riferimento rispettivamente alle parrocchie di San Bartolomeo e di San Salvatore furono giuridicamente suddivise, nel 1601, in due comuni separati, quello di Almenno San Bartolomeo e quello di Almenno San Salvatore. L’autonomia non poteva non degenerare in campanilismo in presenza di una situazione oggettivamente bizzarra: una chiesa canonicamente dipendente da un ente era gestita di fatto da un altro ente. Piccole ritorsioni e grandi gelosie portarono a manifestazioni popolari a volte violente e ad appelli alle massime autorità canoniche, compreso il Papa stesso. Solo nel 1907, a più di tre secoli dal suo inizio, e con l’intervento diretto di Papa Pio X la lite si risolse: San Tomè rientrò nella gestione di fatto e di diritto della parrocchia di San Bartolomeo di Tremozia da cui tuttora dipende.
L’architettura
San Tomè è uno dei più notevoli esempi di architettura romanico-bergamasca con caratteri stilistici evoluti, anche se propri e tipici di tutto il romanico. Si tratta di una costruzione a pianta circolare e a struttura piramidale formata da tre volumi cilindrici concentrici sovrapposti e digradanti, opera di artigiani sapienti e informati dei movimenti artistici che attraversavano l’Europa dell’epoca, capaci tuttavia di mantenere una propria autonomia espressiva tale da rendere la rotonda un’opera unica nel panorama romanico italiano. La rotonda, che richiama nella struttura, pur differenziandosene, la cappella Palatina di Aquisgrana piuttosto che il battistero di Arsago Seprio o il Duomo Vecchio di Brescia, suggerisce una sensazione di eleganza e di leggerezza a cui contribuiscono le nervature verticali, delle semicolonne sul primo corpo, che ad intervalli quasi regolari ne scandiscono e slanciano la superficie esterna.
Il gioco delle ombre creato da queste nervature conferisce all’edificio un aspetto quasi teatrale che si inserisce in un paesaggio campestre, alla sommità di un pendio boscoso, fiancheggiato da filari di alberi cui fa da quinta, in lontananza, la corona delle Orobie in una sorta di magica e surreale sovrapposizione di fondali, di toni, di contesti.
San Bartolomeo di Tremozia
La parrocchiale, San Bartolomeo di Tremozia, risale alla prima metà del XV secolo. Si tratta di edificio gotico a tre navate, ricostruito interamente nel XVIII secolo, che ha conservato molte delle opere pittoriche del precedente. Questa chiesa ha assunto una particolare importanza storica per la nascita del comune di Almenno San Bartolomeo in quanto è stata, nel XVII secolo, il centro catalizzatore della comunità prima della separazione da Almenno San Salvatore.
All’interno sono conservate opere di Bartolomeo Vivarini, una Madonna col Bambino e altre pitture del Moroni.
La Fornace Parietti
Un grande camino demolito per metà e le camere di combustione coperte di terra: si presentava così la Fornace Parietti, un vecchio opificio ottocentesco stretto tra una strada provinciale e i capannoni industriali, con pochi elementi abbandonati in evidente stato di degrado. Testimonianza dell’antica tradizione della produzione locale, la Fornace Parietti, gestito dalla famiglia Parietti; l’attività si sviluppa a partire dal 1835 per esaurirsi poi agli inizi degli anni Sessanta del XX secolo.
Da una statistica del 1891, risulta che gli stabilimenti per la fabbricazione di laterizi, la cottura di calce, gesso, cemento e la fabbricazione di terraglie e stoviglie erano 96, con 137 fornaci, delle quali 88 a fuoco intermittente ed altre a fuoco continuo.
Parecchi erano alimentati da forza meccanica, a vapore od idraulica. Nel complesso vi venivano impiegati più di 1.000 operai. Di questi opifici 16 producevano esclusivamente laterizi, altri 52 laterizi e calce, calce e cemento, gesso e cemento, laterizi, calce e stoviglie, ed occupavano in totale circa 500 operai. Quella di Almenno San Bartolomeo produceva laterizi a calce. Veniva usato materiale scavato nei terreni vicini e come combustibile principalmente carbone Newpelton.
Dopo un calo dell’attività durante e subito dopo la Grande Guerra, nel 1923 l’industria di laterizi ebbe una considerevole ripresa, ma la produzione non fu così importante come nell’anteguerra e risultò insufficiente rispetto alla richiesta di mercato per la scarsità della manodopera, per cui molti mattonai, trovati più facili impieghi, non ripresero la precedente professione ed elementi nuovi non si dedicarono in numero considerevole a tale lavoro.
All’interno della struttura della fornace Parietti di Almenno San Bartolomeo si svolgevano tutte le fasi del processo di produzione di coppi e mattoni: dalla stagionatura del materiale estratto da vicine cave, alla cottura dei mattoni che avveniva in un forno costituito da una galleria ottagonale e irregolare, suddivisa in 16 camere voltate. Le camere erano dotate di aperture arcuate per l’inserimento dei mattoni, di una bocchetta per l’immissione del combustibile e di condotti che convogliavano lo scarico del fumo verso la ciminiera. La gente ricorda come negli anni 30 le maestre una volta all’anno portassero gli scolare a vedere la fornace, spiegandone il funzionamento. Arrivando ai giorni nostri quello che era rimasto dell’antica fornace era il camino, ben visibile ma in parte demolito e le camere di combustione. Lo stato di abbandono peggiorava ulteriormente le loro condizioni: le infiltrazioni d’acqua provocate dal tempo e dal crollo delle tettoie di copertura, il gelo e la presenza di materiale organico, erano fattori che acceleravano il degrado della Fornace.
Nelle camere di combustione gli allagamenti ciclici avevano ormai prodotto l’erosione di ampie parti delle murature inferiori. L’acqua assorbita dalle pareti di mattoni era penetrata a tal punto da disgregarle.
La costruzione era invasa dalla vegetazione e dalle radici. Il recupero della Fornace è un recupero della memoria. Bisognava conservare la testimonianza di un edificio importante non per lo stile o per la bellezza ma per la funzione che aveva svolto.
La Fornace è una “presenza” storica da salvaguardare, un simbolo di quella cultura industriale che è stata e che resta alla base dello sviluppo di una comunità.
Il restauro è riuscito a recuperare il complesso, optando per una soluzione di ‘dialogo’ fra il passato e il presente. Ne risulta un edificio nel quale convivono due architetture completamente distinte: quella ottocentesca della Fornace e un’architettura contemporanea che esalta le strutture preesistenti.

Fonte: Wikipedia
Fonte: il libro “La Fornace Parietti di Almenno San Bartolomeo”
A due passi dalla “Fornace” possiamo trovare uno straordinaio Museo dedicato al legno.
Nato nel 1987 dalla profonda passione del fondatore Tino Sana per l’arte del mestiere del falegname, è considerato oggi patrimonio culturale di altissimo profilo. Da piccolo spazio di conservazione dei vecchi attrezzi del mestiere a vero e proprio museo, dove potrete trovare tutte le botteghe con i loro arnesi: il seggiolaio, il modellista, il carraio, l’intarsiatore, il bottaio, il liutaio.
Ma la civiltà del legno è anche civiltà popolare e allora ecco che troverete anche la storia secolare dei carri regionali e dei burattini, l’evoluzione delle bicicletta, dalla draisina alle bici dei mestieri a quelle dei campioni, con la collezione di Felice Gimondi. Un viaggio nel mondo del legno disposto su tre piani per un totale di 3.500 metri quadri… un viaggio che emoziona…
“Chi visiterà il mio museo proverà quello che provo io nel vedere questi oggetti e nel capire quello che rappresentano: l’impegno, la fatica, l’arte e soprattutto l’amore per uno dei mestieri vecchi come l’uomo.”
Tino Sana
GUIDA ALLA VISITA
L’esposizione si sviluppa su tre piani illustrando il lavoro del falegname con attrezzi e utensili di bottega, macchine importanti per dimensioni e funzionamento, ricostruzioni di falegnamerie, segherie, laboratori di intarsio. Il cammino del visitatore prosegue attraverso il mondo rurale, dove tutto appartiene alla civiltà del legno, dai mobili di casa a una delle calzature più diffuse, lo zoccolo, dall’intrattenimento con la baracca dei burattini agli strumenti agricoli, fino alla sezione dedicata ai mezzi di trasporto: carri, carrozze, slitte, barche, persino un’automobile del 1924 e un aereo in legno della prima guerra mondiale. I primi modelli di bicicletta offrono invece il pretesto per un’ulteriore collezione dedicata al mondo a due ruote.
CONTATTI
Museo del Falegname
Via Papa Giovanni XXIII, 59
24030 Almenno San Bartolomeo (BG)
T (+39) 035 554411 – museo@tinosana.com
Orari di apertura
Lun – Ven: 9.00-12.00 Sab: 15.00-18.00
Dom: 9.30-12.00/15.00-18.00
Chiuso in agosto e nelle festività.
Il Museo può sempre essere visitato da gruppo e scolaresche previo appuntamento.
Fonte: www.museotinosana.it

Condividi